Semi di coraggio (nel quotidiano e su una nave che affonda)
Il nostro piccolo Shumacher sfreccia a velocità supersonica sul monopattino e sbatte contro il tavolo. Scoppia a piangere e per consolarlo e uscire più rapidamente possibile da quella crisi lacrimosa gli diciamo “Brutto tavolo che ti ha fatto cadere!”. Non commentiamo “pericolosa velocità supersonica”, “cattiva idea andare con il monopattino in casa”, ce la prendiamo, invece, con quell’infido del tavolo, e consoliamo la piccola vittima di tale criminale immobilità invitandolo magari – perché il taglione è un principio intramontabile – anche a dargli le tottò.
Oppure, sempre il piccolo Nuvolari, cade, piange, e noi “Dai che non ti sei fatto niente!”.
Spesso rispondiamo alle crisi dei nostri figli con un generico “Su, su…”, su? Bisogna salire? Sembrano metodi per tirarci fuori, noi e il bambino, dalla situazione e dalle sue conseguenze, senza accompagnarlo nell’analisi e nella consapevolezza di quello che è successo e di cui magari è responsabile quand’anche non colpevole. “Ti sei fatto male perché i pattini sono difficili da controllare e in casa ci sono tanti ostacoli, per giunta andavi molto veloce, la prossima volta bisognerà cambiare qualcosa se non vuoi farti male di nuovo”.
Il pianto di dolore: c’è niente di più legittimo? Si è fatto male e giustamente piange; non si è fatto male – meglio per lui – ma forse si è spaventato molto. Perché una tale sopraffazione che nega quello che lui sta sperimentando? Provate a dire una cosa del genere (“Su che non ti sei fatto niente!”) a un vostro coetaneo piangente se avete il coraggio.
A volte abbracciare tacendo è l’azione più saggia (e più rara).
Il rischio è educare individui incapaci di assumersi le responsabilità delle proprie azioni, non allenati a calcolarle preventivamente, così inesperti nell’arte del sopportare il dolore da trovarsi poi spesso a fuggirlo, a tirarsi fuori, per l’appunto, perché terrorizzati anche solo dalla possibilità di soffrire.
Invece ci vuole molto coraggio. Ma, come propone il libro di Domenico Barrilà ed Emanuela Bussolati, un coraggio non più virtù eroica, proprietà esclusiva dei bambini più brillanti, sfrontati, “vincenti”, bensì capacità di tollerare l’insuccesso, di riprovarci comunque, di chiedere aiuto al prossimo, per superare i propri sentimenti d’inadeguatezza, ma anche di offrire soccorso a chi ne ha bisogno. Un percorso evolutivo che, dalla capacità di assumersi le proprie responsabilità, porta alla costruzione di un legame con gli altri così solido da essere in grado anche di gesti eroici, di apertura al sacrificio per gli altri, nel quotidiano o su una nave che affonda.
Il libro offre uno spazio leggero e profondo per raccontare le proprie fragilità e individuare le scappatoie che utilizziamo quando non abbiamo il coraggio di affrontare le nostre paure, con una chiave fondamentale: la forza è da cercare nell’aiuto che possiamo ricevere o dare agli altri.
Non è facile avere coraggio.
È come trovarsi davanti ad una pagina bianca:
non si sa cosa succederà.
Ma se si ha il coraggio
di essere coraggiosi lo si può scoprire!
•”Il coraggio di essere coraggiosi. Diventare grandi senza fare i furbi e senza sentirsi stupidi per questo.”
Domenico Barrilà, Emanuela Bussolati
Collana “Crescere senza effetti collaterali”
2007 Carthusia edizioni
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