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Orchestra Accademia S.Cecilia, sulle ali del classicismo viennese la magistrale interpretazione del pianista rumeno Radu Lupu

Orchestra Accademia S.Cecilia, sulle ali del classicismo viennese la magistrale interpretazione del pianista rumeno Radu Lupu

(di Sergio Prodigo). Gli eventi musicali si susseguono e si replicano senza posa nella stagione dei concerti ceciliani: dopo l’irripetibile violinismo di Kavakos, l’inestinguibile pianismo di Radu Lupu e le magistrali interpretazioni di Sir Antonio Pappano, alla guida dell’Orchestra di Santa Cecilia, nei tre difformi significanti estetici di Britten, Mozart e Brahms all’Auditorium del Parco della Musica.

Nella seconda delle tre serate canoniche, lunedì 16 dicembre, la gremitissima sala Santa Cecilia ha donato la giusta cornice all’evento medesimo, accogliendo con l’abituale plauso l’iniziale spiegamento della folta compagine orchestrale. Un ampio organico strumentale (legni a tre con ottavino, corno inglese, clarinetto basso e controfagotto, saxofono contralto, sei corni, tre trombe, tre tromboni, basso tuba, due arpe, timpani e percussioni, pianoforte e una gran massa di archi) per l’esecuzione della Sinfonia da Requiem di Benjamin Britten: Pappano ha voluto narrarne la genesi e illustrarne i contenuti, prima di renderne palese la particolare e complessa sostanza musicale. È un’opera problematica, sotto diverse angolature, scritta in età giovanile dal compositore inglese, ma già alle soglie di una maturità artistica che si era già espressa ad alti livelli in precedenti lavori sinfonici, come la Simple Symphony op. 4, le Variations on a Theme of Franck Bridge, il Piano Concert op. 13 e la Ballad of Heroes op. 14.

S’è appreso, anche dalle parole di Pappano, come la Sinfonia da Requiem op. 20 fosse stata composta nel fraintendimento di una commissione da parte del governo giapponese, mirata alla celebrazione del duemilaseicentesimo anniversario della dinastia imperiale: ma era il 1940 e Britten, profondo assertore del pacifismo, ignorando la natura dell’evento celebrativo, inviò dagli Stati uniti (dove si era trasferito l’anno precedente) un lavoro concepito con ben altri intenti. Vi traspare, infatti, una meditata ispirazione di matrice cristiana, intesa a rappresentare con le armi della musica i valori della vita e della pacifica coesistenza in opposizione a quelli della morte e della violenza bellica, pur se gli ancestrali richiami alla liturgia esequiale, esplicitati nei tre movimenti dispiegati in un continuum ininterrotto (il Lacrymosa, il Dies irae e il Requiem aeternam) ne condizionano il linguaggio, talvolta aspro e non alieno da voluti urti dissonanti, sovente ritmicamente proteso verso il parossismo espressivo, ma anche addentrato e sublimato, infine, nella contemplazione estatica della meta terminale.

In tali ambiti la complessità dell’ordito compositivo si manifesta in contrastanti raffigurazioni sonore e complesse fraseologie, sovente di difficile assimilazione (come preannunciato nelle note discorsive di Pappano), anche perché si avverte una sorta di sintesi estetica mutuata da letture hindemithiane, bartókiane e stravinskiane, parimenti interpretabile come progressiva ricerca e acquisizione stilistica di inequivocabile originalità espressiva. L’orchestra non ha potuto che esprimersi ai suoi massimi livelli, sempre ai limiti di un virtuosismo esecutivo, pur sempre coniugato e interconnesso alla maestria concertante e al gesto direttoriale, che hanno reso pienamente lo spirito e l’intenzionalità evocativa della difficile partitura.

Di seguito, Mozart e il Concerto n. 23 in la maggiore per pianoforte e orchestra K. 488 nella magistrale interpretazione di Radu Lupu: altro brano evocativo, seppur immerso nel classicismo viennese, quasi a rappresentarne splendori e opacità per la compresenza e ideale sincronia  di una vivida fertilità tematica, di stampo quasi cameristico e non aliena da rinvii alla vivacità di arie coeve (nel primo e nel terzo movimento), e di un meditato intimismo motivico che nel secondo movimento (Adagio) sconfina in un naturale lirismo, vieppiù accentuato dalla costante ritmica (“alla siciliana”) e dall’inusitato impiego del melanconico ambito tonale del fa diesis minore.

Magistrale interpretazione – si diceva – del prestigioso pianista rumeno: alle spalle oltre cinquant’anni di una luminosa e rilevante carriera, ricca di riconoscimenti a livello internazionale, ma nel presente una vitalità esecutiva ancora in grado di suscitare emozioni e sensazioni per la leggerezza del tocco e per la raffinatezza del fraseggio. Un Mozart autentico, restituito alla dicotomia dell’inventio in virtù dell’estrema linearità dei tratti tematici e delle sonorità conseguenti, maggiormente palesati dal bis che Lupu ha concesso, la Fantasia in re minore K. 397, cedendo infine alle reiterate richieste dei plaudenti astanti.

Nella seconda parte del concerto la costante evocativa si è espressa nel nome e nell’immagine di Brahms (anche in virtù di due opportune gigantografie in scena del compositore amburghese) con una appassionata e trascinante esecuzione della Sinfonia n.1 in do minore op. 68. Se è lecito ravvisarvi una sorta continuità e contiguità logica con il linguaggio beethoveniano, sembra ormai appartenere alla vetusta concezione hanslickiana una sua diretta discendenza strutturale ed estetica o alla fervida fantasia di Hans von Bulow l’iperbolico appellativo di “decima”, quasi Brahms dovesse intendersi come un epigono del genio di Bonn e il suo sinfonismo collocarsi alla stregua di un formale prosieguo manierista. Difformità, di contro, ne andrebbero evidenziate molteplici, sia nelle costruzioni motiviche sia nei procedimenti elaborativi, ma prevale sovente quella sensazione di “affinità” che sembra legare il celebrato tema del Finale della Nona al lungo tematismo che s’intende nel quarto movimento della sinfonia brahmsiana.

Cosa accomunerebbe effettivamente e realmente i due temi? Esaminandoli nella loro struttura fraseologica non dovrebbero ravvisarsi similarità ben definite, se non un unico elemento incidentale condiviso, che potrebbe rivelarsi, in effetti, quasi irrilevante in entrambi i contesti tematici, profondamente diversi negli incipit e nella fraseologia conseguente: quel che permane, invece, specie dopo l’ascolto, è soltanto una “sensazione” di analogia motivica, forse condizionata dalla rilevanza e dall’effetto emotivo del medesimo elemento, anche in virtù della sua costante reiterazione. Del resto al finale (Adagio. Più andante. Allegro non troppo, ma con brio) si perviene solo dopo un lungo percorso musicale, dalla costante ricerca delle possibili formulazioni di idee e costrutti, conseguenti alla drammatica fissità dell’apparato introduttivo, nel complesso movimento iniziale (Un poco sostenuto. Allegro), alla cantabilità e alla tipicità della tecnica di sviluppo, profuse largamente nel secondo (Andante sostenuto), fino alla natura quasi cameristica dello Scherzo (Un poco allegretto e grazioso).

Perfettamente aderente allo spirito e alla concezione musicale brahmsiana si è rivelata l’interpretazione che Pappano ne ha offerto, frutto di una meditata assimilazione degli elementi costitutivi e di un sotteso approfondimento critico della partitura, attraverso il felice connubio tra musicalità e lettura analitica: conseguente ed esaltante la performance dell’orchestra, sempre ai già menzionati livelli di eccellenza e di perfetta coesione strumentale.