In morte di Federico, quegli applausi scioccanti per la democrazia di uomini e donne dello Stato
Di Carlo Lazzari.
Che effetto doloroso, scioccante. Quei sorrisi compiaciuti, quegli applausi ininterrotti per oltre 5 minuti, quegli sguardi solidali di
uomini e donne dello Stato. Quella celebrazione cinica ed eversiva per i poliziotti che hanno ucciso 8 anni fa con un pestaggio disumano Federico Aldovrandi di soli 18 anni. Tre sentenze hanno riconosciuto la responsabilità degli agenti nell’omicidio del ragazzo, ne hanno descritto la violenza e la brutalità, evidenziate la determinazione e consapevolezza nel pestaggio mortale. Per la giustizia italiana sono pregiudicati ma per la Commissione di disciplina della Polizia di Stato, Paolo Forlani, Enzo Pontani,Luca Pollastri e Monica Segatto vanno perdonati e comunque meritevoli di indossare di nuovo la divisa. C’è uno strappo lacerante tra lo Stato e questi uomini delle forze dell’ordine e di tutto il largo movimento di sostegno che si riconosce nel sindacato autonomo del Sap, che ieri in quella sala dai bassi soffitti celebrava con spregiudicata arroganza la propria autonomia dalla Giustizia e dalle sue regole. C’è una domanda tagliente che si fa strada tra la rabbia e lo sdegno, ma chi sono questi poliziotti. Chi rappresentano, come si collocano in uno stato di democrazia se possono deridere impunemente le decisioni dei Giudici e quelle degli Uomini per l’umana pietà che la vita di Federico richiederebbe. La sindrome del branco, così come è stata rappresentata la sconfortante manifestazione di sostegno ai picchiatori, accentua ancor più la deformazione del ruolo delle forze dell’ordine. Il G8 di Genova propose un delirante esempio di polizia sudamericana, una palestra di violenze e abusi impensabili in uno stato di diritto. Poi vennero i casi di Giuseppe Uva (l’uomo massacrato di botte a Varese in una caserma con 8 a processo tra carabinieri e poliziotti), di Stefano Cucchi (il ragazzo morto in ospedale dopo presunte violenze da parte degli agenti di custodia) di Michele Ferulli (l’uomo di 51 anni di Milano fermato, picchiato e deceduto in ospedale con 4 agenti rinviati a giudizio) e di Riccardo Magherini (l’ex calciatore deceduto dopo un arresto da parte dei carabinieri per il quale quattro militari sono indagati per omicidio), ad accendere i riflettori sulla gestione della forza da parte di polizia e carabinieri. E di nuovo si pone la questione di fondo: può una democrazia matura come la nostra accettare che alcuni difensori dell’ordine e del rispetto delle regole della convivenza, diventino loro stessi i carnefici da cui cerchiamo di proteggerci, senza causare un corto circuito nel sistema sociale?
Ora l’intervento immediato del premier Renzi di solidarietà con Patrizia Moretti, la mamma di Federico, poi quello del capo della polizia Pansa e del ministro degli Interni, Alfano nonche’del sindacato di polizia Siulp dissociatosi dal Sap, hanno un valore significativo per collocare nel giusto ruolo lo stato di fronte a certe violenze che si maturano al suo interno. Ma non può bastare. Patrizia Moretti, nella sua solitaria e dolorosa battaglia nella difesa di un figlio ammazzato, pone una questione che si distende su altre latitudini: la solidarietà non basta più. E’ la politica ora che deve affrontare il problema dello sbandamento in atto in alcune aree cruciali dello stato di diritto. Ridare la divisa e gli onori agli agenti assassini non è un atto di pacificazione tra la società e la polizia, ma un ulteriore offesa alla morte di Federico, al significato di una vita sottratta per un esercizio di pura e ingiustificata violenza da chi è pagato, seppure male, per combatterla.
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