Istat, l’Italia è fuori dalla recessione, ma la situazione rimane drammatica
La recessione è finita, ma la stagnazione no
Il Rapporto Istat 2014, che viene presentato stamane alle 11 a Montecitorio dal presidente Antonio Golini, mostra un Paese che ancora non riesce a ripartire e appare sempre più frammentato: le regioni del Mezzogiorno aumentano ulteriormente la loro distanza dal resto del Paese, solo il 30% delle imprese negli ultimi due anni ha migliorato occupazione e fatturato, intercettando gli stimoli di crescita, la disuguaglianza rimane “consistente” a dispetto delle politiche redistributive, la povertà aumenta, l’occupazione femminile migliora, ma solo perché servono più baby sitter e badanti per supplire alla cronica inadeguatezza dei servizi sociali. L’Italia non cresce, e questo limita o, peggio, annulla gli effetti della spending review sul debito pubblico. Tra disoccupati e persone che sarebbero comunque disposte a lavorare nel 2013 si contano 6,3 milioni di “potenzialmente impiegabili”, uno spreco di risorse colossale che riguarda soprattutto i giovani.
A prosciugare le risorse dell’Italia anche le politiche di austerity, che ci sono costate particolarmente care: “Il nostro è stato l’unico Paese della Uem a non aver attuato nel complesso politiche espansive, presentando effetti cumulati restrittivi per oltre 5 punti di Pil”, che si traducono in circa 78 miliardi. Peraltro le manovre fiscali da182 miliardi in 3 anni hanno avuto effetti molto limitati di contenimento del debito pubblico, che nel 2013 è salito al 132,6% nel
2013, “circa 12,5 punti oltre il massimo del 1996″. L’evoluzione negativa dei conti pubblici, spiega l’Istat, “è dipesa soprattutto dagli effetti della recessione economica, da un aumento della spesa per interessi e, in misura minore, dall’attuazione di politiche fiscali discrezionali espansive”.
Il Pil: crescerà, ma poco
L’Istat prevede un aumento del prodotto interno lordo pari allo 0,6% quest’anno in termini reali, dell’1% nel 2015 e dell’1,4% nel 2016. Se negli anni di crisi a sostenere la produzione sono state soprattutto le esportazioni, invece da quest’anno dovrebbero migliorare i consumi interni: la domanda al netto delle scorte è prevista in crescita dello 0,4%. Un miglioramento delle condizioni di accesso al credito dovrebbe ulteriormente spingere la spesa delle famiglie, “sostenuta da un incremento del reddito disponibile nominale superiore all’inflazione al consumo”.
I consumi: spendono solo i pensionati
La ripresa dei consumi interni è molto attesa dal momento che dal 2008 le famiglie italiane hanno sperimentato sei anni consecutivi di caduta del potere d’acquisto, che hanno affrontato riducendo fortemente il risparmio. Tra il 2007 e il 2013 il potere d’acquisto è sceso del 10,4%, nel 2013 però la caduta è “solo” dell’1,1%, grazie a un modesto aumento dello 0,3% del reddito disponibile. Tuttavia osserva l’Istat che il 2013 potrebbe essere un anno di svolta, in cui la riduzione dei consumi risulta superiore a quella del reddito. La propensione al risparmio infatti è risalita al 9,8% dopo il minimo storico dell’8,4% toccato nel 2012: le famiglie si sono adeguate ai nuovi livelli di reddito cosi come i consumi e anche il credito al consumo si è contratto. Tra il 2007 e il 2012, rileva l’Istat, “solo le famiglie di ritirati dal lavoro hanno conservato livelli medi di consumo mensile positivi”, “grazie alla sicurezza fornita dai redditi da pensione”.
Il lavoro: 6,3 milioni tra disoccupati e inattivi
I disoccupati sono poco più di tre milioni, ma in realtà “il totale delle forze di lavoro potenziali” in Italia raggiunge i 6,3 milioni di individui, visto che l’Istat calcola anche 3.205.000 inattivi, 417.000 solo nel 2013. Cresce la disoccupazione di lunga durata: se nel 2008 era al 45,1%, nel 2013 raggiunge il 56,4% dei senza lavoro. E’ sempre più difficile tornare al lavoro dalle file dei disoccupati: se nel periodo precrisi, tra il 2007 e il 2008, lo hanno fatto 33 disoccupati su 100 nell’arco di un anno, tra il 2012 e il 2013 si scende a 24 su 100. Ma è altrettanto difficile passare da un lavoro “atipico” a uno con contratto a tempo indeterminato: 527.000 atipici svolgono lo stesso lavoro da almeno cinque anni, erano il 18,3% nel 2008, sono diventati il 20,2% nel 2013. E tra i precari c’è anche un nutrito gruppo di dipendenti Istat, che ieri pomeriggio ha fatto irruzione in sala stampa, durante la presentazione anticipata del Rapporto per i giornalisti, per chiedere la stabilizzazione di 376 giovani che lavorano per l’istituto da 4 anni, in attesa dell’immissione in ruolo.
Mezzogiorno sempre più alla deriva
La crisi ha accresciuto i divari territoriali. Il Mezzogiorno è diventato sempre più povero, soprattutto a causa della cronica mancanza di lavoro. Infatti il tasso di occupazione maschile è sceso al 53,7%, oltre 10 punti più basso della media nazionale, quanto alle donne, lavora una su tre. In particolare Campania, Calabria, Puglia e Sicilia presentano valori del tasso di occupazione femminile pari a meno della metà di quello della Provincia Autonoma di Bolzano. Le famiglie in cui non è presente alcun occupato al Sud sono passate dal 14,5% del 2008 al 19,1% del 2013. E quindi il rischio di povertà nel Mezzogiorno è molto più alto che nel resto dell’Italia. La mancanza di prospettive per i giovani ne favorisce l’esodo, per cui il Mezzogiorno sta invecchiando più rapidamente che il resto dell’Italia: l’Istat prevede che dal 2011 al 2041 la proporzione di ultrasessantacinquenni per 100 giovani con meno di 15 anni risulterà più che raddoppiata passando da 123 a 278.
Le imprese: 30 su 100 ce la fanno
Analizzando il fitto reticolato del sistema italiano delle imprese l’Istat individua una consistente percentuale di “top performers”. “Sono imprese – spiega Roberto Monducci, direttore del dipartimento per i conti nazionali e le statistiche economiche – che negli ultimi due anni, nonostante la crisi, hanno aumentato occupazione e fatturato, che operano su scala internazionale, hanno relazioni produttive con altre imprese, tendono a fare innovazioni organizzative e di processo”.
Cresce la disuguaglianza
L’Istat analizza attentamente sia le politiche di redistribuzione del reddito che quelle di riduzione della spesa pubblica, valutandole entrambe positivamente. Eppure, in entrambi i casi si tratta di politiche quasi inefficaci, o comunque scarsamente influenti. Per la riduzione della spesa pubblica a frenare l’efficacia di una più che consistente spending review operata dai vari governi negli ultimi anni è la debolissima crescita del Pil, e l’aumento dei tassi di interesse. Mentre per le politiche di redistribuzione del reddito, che l’Istat promuove valutandole come “di apprezzabile entità, non inferiore a quella dei Paesi scandinavi”, a frenare l’efficacia sono i fortissimi squilibri del Paese, a cominciare dallo svantaggio retributivo a sfavore delle donne e dei giovani. Per cui “in Italia il livello di disuguaglianza rimane significativo anche dopo l’intervento pubblico”. Inoltre c’è una grossa falla nelle politiche italiane di redistribuzione: “Le detrazioni per lavoro e per familiari a carico perdono parte della loro efficacia redistributiva per effetto dell’incapienza, che si verifica quando il reddito è così basso da non consentire di avvalersi pienamente dei benefici delle detrazioni”.
La trappola della povertà
La carenza di politiche a favore dei più poveri incide negativamente sul “rischio di persistenza in povertà”, ovvero la condizione di povertà nell’anno corrente e in almeno due degli anni precedenti, che nel 2012 in Italia presenta uno degli indici più alti d’Europa, 13,1 contro 9,7%. Le famiglie maggiormente esposte sono quelle residenti nel Mezzogiorno, quelle che vivono in affitto, con figli minori, con disoccupati o in cui il principale percettore di reddito ha un basso livello professionale e di istruzione. Nel rapporto si legge che l’indicatore di povertà assoluta, stabile fino al 2011, sale di ben 2,3 punti percentuali nel 2012, attestandosi all’8% della popolazione.
Minimo storico per le nascite
La prolungata recessione ha scoraggiato anche le nascite: l’Istat conferma che nel 2013 si è toccato un nuovo minimo storico per le nascite da quasi vent’anni. Si stima che siano stati iscritti all’anagrafe poco meno di 515mila bambini, 12mila in meno “rispetto al minimo storico registrato nel 1995″.
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