Roma, Napolitano incontra a sorpresa Papa Francesco. Tra i temi trattati anche le dimissioni anticipate del Presidente
Quando il 20 aprile 2013, dopo le pressioni incrociate del Parlamento, Giorgio Napolitano accettò di essere rieletto, papa Francesco benedisse al telefono la sua scelta come un «eroicismo». A parte il veniale errore lessicale, quel tono da iperbole spiega quale significato attribuisse alla scelta di un uomo già molto avanti nell’età che si caricava sulle spalle il peso di un tempo supplementare al Quirinale, «per il bene dell’Italia». Il 21 novembre 2014 i due si sono rivisti ed è scontato che il presidente della Repubblica abbia anticipato le ragioni del suo ormai vicino congedo.
«Un incontro privato e riservatissimo» dicono con straordinaria laconicità dal Colle, senza neppure spiegare chi ha chiesto l’incontro a chi (per inciso, a sollecitare il faccia a faccia in incognito è stato il capo dello Stato). Un particolare che comunque non conta granché, visto che pure il Papa legge i giornali e certo non ignora il nostro dibattito politico. Del resto, poiché non sono state svolte le istruttorie tipiche di questi casi e poiché mancava anche la classica agenda precostituita dai rispettivi consiglieri, è fatale che il colloquio nella residenza di Santa Marta si sia concentrato sulla novità con cui il Paese dovrà misurarsi dopo il giro di boa di fine anno. Cioè, appunto, le dimissioni anticipate di Napolitano, mentre resta ancora irrisolta la transizione cominciata all’alba degli anni Novanta e mentre sulla nostra società incombe sempre più il rischio di una lunga quaresima per le ricadute della crisi economica.
Il presidente e questo Papa si conoscono da poco tempo, ma hanno imparato a stimarsi e a parlarsi da vecchi amici. Lo dimostra il rapporto che, da laico curioso il primo e da gesuita aperto al mondo il secondo, hanno costruito esprimendosi entrambi con un linguaggio spiazzante per le rispettive diplomazie: franco e diretto, privo di ipocrisie. Basta ricordare la visita ufficiale che il «primate d’Italia» (e, per nascita, mezzo italiano) Bergoglio fece al Quirinale l’anno scorso. Si sentì dire, come nelle pubbliche confessioni usate dalla Chiesa dei primi secoli, che da noi «il clima è avvelenato e reso destabilizzante da esasperazioni di parte» della politica e che insomma viviamo sotto «una tumultuosa pressione». Siamo chiamati entrambi a «governare realtà complesse nel continuo tentativo di unire», aggiunse, rispecchiando la propria linea d’intervento in quell’invito che il pontefice ripete al popolo cristiano e alla sua curia: «Serve dialogo, dialogo, dialogo».
Ne avranno di sicuro discusso anche ieri. E Napolitano con qualche frustrazione, considerato che si prepara a lasciare l’incarico senza lasciare le cose in ordine come aveva chiesto a tutti i partiti e come in cuor suo sperava, quando fu rieletto. Senza le riforme da lui tanto sollecitate (su ogni altra, quella elettorale) e senza una salda stabilizzazione del sistema, anche se a Palazzo Chigi c’è un premier che non mostra di rassegnarsi e di cui il presidente ha imparato ad apprezzare l’energia e la forza di volontà. Un premier che – si sa – continua a premere perché il capo dello Stato resti sul Colle un po’ più a lungo di quanto ha deciso, per stanchezza e insostenibilità fisica. Chissà se di questo il capo dello Stato ha fatto cenno pure ieri in Vaticano. Se l’ha fatto, però, di sicuro papa Francesco non si è impressionato più di tanto. Dopotutto la Chiesa ha appena sperimentato con Ratzinger un’analoga rinuncia, anch’essa quasi senza precedenti nella sua bimillenaria storia.
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