Concerto per il nuovo anno all’Accademia di Santa Cecilia con musiche di Berlioz, Čajkovskij e Strauss
di Sergio Prodigo
Domenica 4 gennaio (con repliche il 5 e il 6) al Parco della Musica l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, diretta da Andrés Orozco-Estrada (con la partecipazione della pianista Beatrice Rana), ha degnamente inaugurato il nuovo anno in virtù dell’esecuzione di musiche “non rituali” o, quantomeno, non connesse al consueto spirito e agli usuali contenuti di similari manifestazioni sinfoniche. In verità, Strauss figurava nel programma, ma era lo Strauss di Monaco, pur se nella “Suite dal Cavaliere della rosa” (opportunamente eseguita “in cauda”) si può rilevare una sorta di omaggio a quella tradizione viennese, sempre imperante e preponderante nelle proposizioni concertistiche di inizio d’anno: accanto al compositore tedesco, tuttavia, Berlioz (con “Il Carnevale romano”) e Čajkovskij (con il “Concerto n. 1” per pianoforte e orchestra e con il “Romeo e La fascinosa “Ouverture” op. 9 di Berlioz, impreziosita dalla magia di un’abile orchestrazione, negli intenti compositivi avrebbe dovuto rappresentare la particolare atmosfera popolaresca della tradizione carnascialesca romana: in realtà, il compositore francese utilizzò per la sua stesura, che risale al 1843, elementi tematici tratti dalla sfortunata e controversa opera “Benvenuto Cellini”, infaustamente rappresentata a Parigi nel 1839 (in seguito – ma negli anni cinquanta – riproposta con successo a Weimar grazie alla generosità di Liszt). In effetti, se il motivo del “salterello”, enunciato inizialmente e, dipoi, essenziale per l’elaborazione strutturale, appare fortemente evocativo della citata atmosfera (pur se ugualmente distante dal contesto rinascimentale dell’opera, in quanto – come adeguatamente evidenziato nelle note programmatiche – frutto di un’autocitazione di un brano giovanile, il “Gloria” dalla “Messe solennelle”), l’espressione motivica susseguente, di dolce e suggestiva cantabilità (mercé l’ausilio timbrico del corno inglese), se ne distacca nettamente, palesando la sua diversa natura o, meglio, la sua difforme “origo” (ossia l’altra autocitazione, tratta dal duetto d’amore del primo atto del “Cellini”). Di là da tale (forse) oziosa ecdotica, più idonea per una sua analisi critica, “Il Carnevale romano” si rivela (e si è rivelato) all’atto esecutivo particolarmente coerente ed efficace, anche perché la performance dell’orchestra ceciliana e di Andrés Orozco-Estrada, un ancor giovane direttore colombiano tra i più acclamati della nuova generazione, ne ha saputo cogliere con estrema diligenza l’insita musicalità e la straordinaria complessità del linguaggio strumentale. Generalmente una “ouverture” precede o preannunzia un concerto solistico: così, consequenzialmente, la celeberrima pagina di Čajkovskij si è concretata nella sua logica valenza contestuale, concedendo e dispiegando agli astanti la sua variegata e composita sequela e profusione motivica e accordale, quasi predetta dal notissimo inciso iniziale dei corni. Del resto, proprio la massiccia introduzione del primo movimento (“Allegro non troppo e molto maestoso”) costituisce il topos icastico del “Concerto n. 1” in si bemolle minore op. 23, universalmente nota anche ai profani in virtù di tante sciagurate trascrizioni e proposizioni fuorvianti (già dagli anni sessanta dello scorso secolo): eppure, il prosieguo dello stesso movimento (“Allegro con spirito”), di stampo sonatistico, si avvale di due tematismi che, pur non celando derivazioni popolari, si rivelano di maggiore pregnanza fraseologica e di meno ampollose (specie il secondo tema) caratterizzazioni melodiche. Ugualmente il secondo movimento, in forma tripartita (“Andantino semplice”, “Prestissimo”, “Tempo I”): l’idea motivica è delicata e, a volte, struggente; il pianoforte, reduce dai virtuosismi cadenzali del movimento iniziale, dialoga con i legni e, negli avvicendamenti fraseologici, assume quasi una funzione concertante di raccordo, almeno fino al liquido episodio centrale; qui riemerge, ma quasi trasognato, il funambolismo e, via via, si rinserra il raffronto dialettico con la massa orchestrale; il tutto poi sfocia in una naturale e rituale cadenza, che precede l’idilliaca ripresa tematica. Diverso lo spirito del terzo movimento (“Allegro con fuoco”): l’elemento folklorico è preponderante, ma è trattato con estrema vigoria e con marcata ritmicità; il dialogo fra tastiera e sezioni strumentali è sempre vivo e presente, ma prevale infine la componente virtuosistica, tesa a esaltare il ruolo dello strumento solista. Difficoltoso e controverso – almeno sulla scorta delle immancabili ovazioni – il giudizio sull’interpretazione: indubbiamente dotata di sana musicalità e di notevoli abilità tecniche, Beatrice Rana, giovanissima pianista pugliese, al suo debutto nei concerti ceciliani, ne ha forse avvertito l’impatto emotivo, ossia ha palesato nel corso dell’esecuzione una sorta di progressiva impasse che ha nuociuto al necessario amalgama performativo fra lo strumento solista e l’orchestra. Problematici, pertanto, si sono rilevati all’ascolto critico i momenti d’insieme e quei passaggi dialogici che avrebbero richiesto più logica coesione, mentre i numerosi episodi solistici hanno maggiormente evidenziato le indubbie doti virtuosistiche di una interprete, considerata un astro nascente nel panorama del pianismo internazionale. Più convincente, in tale ottica, è apparsa la performance della pianista nel bis, concesso ad un pubblico sempre plaudente e osannante: “Widmung” di Schumann, ma nella ridondante ed eccessiva trascrizione (così come la giudicò Clara Wieck-Schumann). La seconda parte del concerto si è aperta ancora nel segno del tardoromanticismo čajkovskijano con la proposizione della splendida Ouverture-fantasia “Romeo e Giulietta”. Composta nel 1869 ma revisionata nel 1871 e, definitivamente, nel 1880, l’opera sembra strutturarsi nella tipologia del poema sinfonico, mirando a descrivere e rappresentare musicalmente gli eventi della dramma shakespeariano, secondo i dettami estetici (suggeriti da Balakirev) della scuola nazionale russa. Tuttavia, il Nostro si distacca da tale spirito, affidandosi al tradizionale tripartitismo sonatistico e utilizzando, dopo un’introduzione che ha le sembianze di un amplio corale, il contrasto e la contrapposizione dialettica di due temi, l’uno mirante a connotare la sanguinosa faida tra le famiglie dei Capuleti e dei Montecchi, l’altro evocativo del tragico amore fra Romeo e Giulietta: sublime, in tal senso, la “conversione funebre” nella coda finale di tale tematismo, scandito dal cupo e drammatico rullio dei Il brano conclusivo, come già si è accennato inizialmente, ha rappresentato forse l’irrituale omaggio all’anno subentrante, poiché nel capolavoro sinfonico di Richard Strauss, la “Suite” dal “Cavaliere della rosa” op. 59, elaborata nel 1944 su temi della omonima opera (rappresentata a Dresda nel 1911), appare disvelarsi proprio la nostalgica rimembranza della Vienna asburgica, accomunata da sempre – ma nel nome della famiglia Strauss – ai tradizionali concerti del Musikverein (e non solo!). Il complesso lavoro richiederebbe una complessa esegesi analitica, ma, di là da essa pur opportuna in altri ambiti, val la pena almeno di rilevare come in Strauss l’estrapolazione (al contrario di altri compositori) riesca a creare un’autonoma e affrancata opera, scevra dai raffronti con la fonte originaria ma, di per sé, in grado di significare un ulteriore momento creativo. Magnifica, sotto ogni aspetto, si è rivelata l’esecuzione delle due pagine sinfoniche da parte dell’Orchestra di Santa Cecilia e assai convincente è apparsa al pubblico plaudente l’interpretazione di Andrés Orozco-Estrada, pienamente compenetrata nel difforme contesto estetico delle due complesse partiture.
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