Palermo, arrestato insieme ad altre 26 persone il consigliere comunale Giuseppe Faraone. L’accusa è di concorso in tentata estorsione
In campagna elettorale Giuseppe “Pino” Faraone si definiva un “paladino della legalità” e urlava a squarciagola il simbolo della sua lista: “Amo Palermo”. Ma poi andava ad abbracciare uno dei boss più in vista della città, Francesco D’Alessandro. Tanta affettuosità non è sfuggita ai carabinieri del Reparto Operativo, grazie alle immancabili intercettazioni. Eccola, l’ultima cartolina da Palermo. Il padrino del potente clan di San Lorenzo e il politico, attualmente consigliere comunale. Questa mattina, Faraone è stato arrestato insieme ad altre 26 persone, accusate di essere i nuovi boss del pizzo. Adesso, deve difendersi da un’imputazione pesante per un incensurato, tentata estorsione aggravata: la procura distrettuale antimafia di Palermo lo accusa di essere stato l’insospettabile ambasciatore dei clan, avrebbe recapitato addirittura una richiesta di pizzo a un imprenditore. E’ un nuovo scossone per la politica siciliana. Perché Giuseppe Faraone, 69 anni, è stato deputato regionale e poi assessore provinciale, negli ultimi vent’anni è passato dall’Udc alla lista del governatore Crocetta, il Megafono, risultando nel 2012 il primo dei non eletti al parlamento siciliano. 2.085 voti non gli sono bastati per la Regione. 896 sono stati invece sufficienti per il consiglio comunale, dove Farone aderisce proprio al gruppo del Megafono.
Il vero scossone per Palermo sono le denunce di 14 fra imprenditori e commercianti, sono loro che hanno fatto scattare il blitz con le
dichiarazioni fatte alle forze dell’ordine. A luglio, dopo una prima operazione antiracket, erano stati convocati in caserma. Messi di fronte all’evidenza di indagini e intercettazioni hanno ammesso di aver pagato il pizzo. E sono andati anche oltre, riconoscendo esattori e ambasciatori del racket. Fra questi c’era anche l’insospettabile Faraone, avrebbe avvicinato un imprenditore che si occupa di forniture elettriche. Altri esattori del clan San Lorenzo hanno chiesto il pizzo a una nota concessionaria Honda di Palermo, alla ditta che si occupa della pulizia allo stadio e a quella che stava ristrutturando un palazzo per conto della Curia. I boss imponevano il pagamento della “mesata”, ma anche assunzioni.
Il provvedimento che ha fatto scattare il blitz di questa mattina è stato firmato dal gip Luigi Petrucci, su richiesta del procuratore aggiunto Vittorio Teresi e dei sostituti Francesco Del Bene, Amelia Luise, Annamaria Picozzi, Dario Scaletta e Roberto Tartaglia.
La denuncia
“Ho ricevuto una richiesta estorsiva, che mi è stata rivolta da una persona che conosco da molti anni, in quanto si tratta di un politico che attualmente ricopre delle cariche all’interno dell’amministrazione comunale”. Inizia così il drammatico racconto dell’imprenditore che ha incastrato il consigliere comunale: “E’ Giuseppe Faraone, che è stato assessore alla viabilità, l’ho conosciuto perché la mia azienda si occupa anche di lavori stradali. E poi mi aveva chiesto più volte di aiutarlo nella raccolta dei voti per le varie tornate elettorali. A fine 2012, mi rappresentò che alcuni amici lo avevano incaricato di richiedermi del denaro, in quanto avevano bisogno di aiuto finanziario. Risposi in maniera dura, rappresentandogli che non avevo amici e non avevo alcuna intenzione di pagare alcunché. Anche perché avevo capito che si trattava di una richiesta estorsiva”.
Iniziarono giorni terribili per l’imprenditore. Faraone tornò a ribadire la richiesta di pizzo, “perché gli amici hanno bisogno di una mano di aiuto”, disse all’imprenditore. Che continuava a resistere. Iniziarono le telefonate anonime e strani squilli al citofono. Gli dicevano: “Rivolgiti agli amici”. Fino a quando l’imprenditore decise di affrontare Faraone: “Lo andai a trovare al bar Golden, dove sapevo di poterlo incontrare, lo agredii verbalmente in quanto lo ritenevo responsabile di quello che stavo accadendo. Gli dissi che qualora mi fosse successo qualcosa avrei addossato a lui ogni responsabilità. Per questo aveva anche predisposto una lettera che avevo consegnato al mio avvocato, corredata da precise istruzioni perché venisse resa pubblica qualora fosse successa qualcosa a me o alla mia azienda. Faraone si mise a ridere, non mi rispose e se ne andò”.
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