Parco della Musica: al via l’European Tour con la performace della grande pianista francese Helene Grimaud
di SERGIO PRODIGO. Straordinario, ossia di là dall’ordinario ma posposto, come necessaria aggettivazione, all’evento concertistico dello scorso sabato 9 aprile all’Auditorium del Parco della Musica: Sir Antonio Pappano, alla guida dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e con la partecipazione della celebre pianista francese Hélène Grimaud, ha interpretato un variegato programma di un “European tour” che, a partire da lunedì 11 (Parigi) e fino al 18 aprile, viene e verrà poi proposto nelle più prestigiose sedi teutoniche (Berlino, Hannover, Amburgo, Francoforte e Monaco); eppure, straordinario (quindi, preposto) lo è stato il concerto medesimo, sia per i contenuti programmatici sia per l’eccezionale performance degli interpreti.
In effetti, la proposizione – nell’ordine – della “Sinfonia” dalla “Cenerentola” di Rossini, del “Concerto n. 4” di Beethoven per pianoforte e orchestra e della “Sinfonia n. 3” di Saint-Saëns fonde e contempera tre diverse espressioni dello spirito compositivo italico, germanico e d’oltralpe, omaggiando quelle terre natali così intrise e feconde di genialità musicale e di estro inventivo. Appare lecito, del resto, ravvisare nei pur difformi brani la gioiosa elasticità motivica dell’irripetibile ‘inventio’ rossiniana, la ‘vis’ drammatica ed espressiva del tematismo e delle strutture beethoveniane e, ‘in cauda’ la poliedricità polimorfa del compositore francese. I dettagli non si discostano, certamente, da tali – seppur limitative – caratterizzazioni stilistiche, ma è indubbio che già la gaia freschezza della “Cenerentola”, di là dall’abituale modulo formale (“Introduzione” lenta, quasi solenne, e un vivacissimo “Allegro” bitematico), si sia palesata come un sorgivo incanto, scaturito da una mirabile perfezione esecutiva.
Forse andrebbe sempre evidenziato come quel linguaggio, così chiaro e gradevole all’ascolto, contenga di contro insidie e difficoltà d’ogni sorta, appunto a livello esecutivo, perché lo si possa poi intendere nella sua effettiva e grandiosa valenza. Così, del resto, si è inteso, in virtù di un’Orchestra in pieno stato di grazia e di un direttore, Pappano, che ne sa sempre rappresentare ed esaltare il valore.
La “Sinfonia” rossiniana ben prelude, così, al “Concerto n. 4” in sol maggiore op. 58, quell’immenso capolavoro che nel 1807 (anno della sua prima esecuzione, con Beethoven al pianoforte) stravolse quasi i princìpi costitutivi di una forma pur consolidatasi nell’aureo classicismo viennese. In effetti, già nel primo movimento (“Allegro moderato”) è lo strumento solista che introduce il primo tema, ma come un accenno o un intento creativo che è poi l’intera orchestra a ghermire e sviluppare nella prima fase espositiva; di seguito, anche lo schema della doppia esposizione si modifica, accogliendo altri elementi, a volte mutuati dalle due divergenti tematiche esposte, ma sovente frutto di pindariche inventive, premonitrici di romantici estri. E l’estro “profetico” caratterizza anche il secondo tempo (“Andante con moto”), poiché quella costante e reiterata contrapposizione fra le drammatiche sequenze di archi all’unisono (e in raddoppi d’ottava) e la celestiale coralità accordale del pianoforte, sembra simulare o raffigurare la sembianza d’un ideale dialogicità dell’immanenza umana con la trascendenza divina, infino al naturale connubio, preannunciato dai trilli e dai cromatismi scalari dello strumento solista. Forse tale rappresentazione non cela una matrice o, meglio, una devianza retorica, ma è quel che s’avverte nella breve pagina intermedia, che non prepara né fa presagire quanto il “Genio” può ancora creare per il movimento conclusivo. È indicato come un “Rondò”, ma è anche qualcosa d’altro, sia sul piano strutturale, poiché si amalgamano le due forme (il rondò e la forma-sonata) in un ‘unicum’ che – appunto – le unifica in grazia di tematismi ricorrenti, di contrapposizioni timbriche (con largo impiego dei legni) e di una inesausta ritmicità.
Non è mai agevole interpretare tale “Concerto” e renderne l’originale spirito e, soprattutto, dipanarne l’enigma costitutivo: è quanto ha saputo operare la Grimaud, poiché senza eccessi o cedimenti a facili virtuosismi ne ha coerentemente parafrasato l’autentica e disvelata natura, restituendo alla cantabilità la giusta misura espressiva, forse aliena da slanci o da virili enfatizzazioni, non conformi ai tratti del linguaggio beethoveniano, chiosato tra l’altro dalla solista francese con estrema nitidezza e aderenza alle linee essenziali delle diverse componenti fraseologiche, ben coadiuvata in tale ricerca stilistica dalla ineccepibile lettura esegetica di Pappano.
Si spiegano, così, le trionfali ovazioni e le numerosissime chiamate che il pubblico ceciliano le ha tributato e riservato al termine, ricambiate dalla “concessione” di due intensi e struggenti “bis”.
Nella seconda parte del concerto la “Sinfonia n. 3” in do minore con organo op. 78 di Camille Saint-Saëns: tale complesso lavoro sinfonico può considerarsi come la summa del suo ampio e variegato sinfonismo, sia perché s’assommano (appunto) una gran copia e una sovrabbondanza di mezzi espressivi e rappresentativi (tematici e timbrici) sia perché si glorifica – in certo qual senso – il principio della ciclicità, direttamente estrapolato dalla venerata opera lisztiana; del resto, venne appunto dedicata alla memoria del compositore magiaro, scomparso nel marzo del 1886. Eseguita, sotto la direzione dell’autore, a Londra (in quanto commissionata dalla London Philharmonic Society) nel maggio di quello stesso anno, la “Sinfonia” si avvale di due soli movimenti estremamente articolati al loro interno (I: “Adagio” – “Allegro moderato” – Poco adagio”; II: “Allegro moderato” – “Presto” – “Maestoso” – “Più allegro” – “Molto Allegro”) e di un imponente organico strumentale che comprende anche l’organo e il pianoforte (a due e a quattro mani). Ardua, tuttavia, la sua configurazione strutturale, anche per l’accennata copiosità di temi e spunti motivici ricorrenti, che induce ad astenersi dal dispiegarvi o dedicarvi un’accurata analisi. L’ascolto, tuttavia, e conseguentemente la sua proposizione non celano momenti di piena e appagante godibilità, né viene mai meno l’interesse per gli intrichi e le continue elaborazioni del materiale: s’avvertono specie nella parte finale, allorché il “Maestoso” riafferra elementi già intesi, li rimodula in contesti fugati e li condensa poi in una tronfia coda di particolare efficacia e di grande (e non casuale) effetto.
La perfetta esecuzione da parte dell’Orchestra dell’Accademia e la maestria direttoriale di Antonio Pappano hanno vivificato anche quel trionfale sinfonismo, alieno forse, o distante, dalla raffinatezza rossiniana e dalla possanza beethoveniana, ma ben accetto alle platee: il susseguente e incontenibile entusiasmo degli astanti è anche da intendersi come augurale viatico per il successo che la compagine ceciliana e il suo prestigioso direttore coglieranno soprattutto nelle sale da concerto germaniche, come i migliori ambasciatori possibili della cultura e della professionalità dell’italica genia.
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