Parco della Musica, il grande Temirkanov dirige Ravel, Mahler e Brahms
(di Sergio Prodigo) Reduce dalla trionfale tournée in Francia e, soprattutto, in Germania, lo scorso sabato 23 aprile (con repliche il 24 e il 26) l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia ha potuto e saputo esprimersi ai suoi più alti livelli anche sotto la guida e il magistero del suo direttore onorario, Yuri Temirkanov, nell’abituale cornice dell’Auditorium del Parco della Musica. Curiosamente il programma ha trattato tematiche e fogge – seppur diversificate – del sinfonismo d’oltralpe (Ravel) e tedesco (Brahms, ma estensivamente anche Mahler), quasi nello spirito di un doveroso omaggio musico-letterario proprio verso quei paesi che hanno tributato (specie la Germania) quel menzionato trionfo alla compagine ceciliana (e al grande Pappano).
Nello specifico, in virtù della magia interpretativa del direttore russo e di una straordinaria performance dell’orchestra (specie delle prime parti dei fiati), s’è intesa – nella prima parte del concerto – quella sembianza di sognante ed evocativa poetica memorialista, che emerge (ed è emersa) sia dalle scarne e lineari pagine della raveliana “Pavane pour une infante défunte” sia dai complessi e commoventi “Kindertotenlieder” mahleriani. Certamente la celeberrima “Pavane”, proprio nella trasposizione orchestrale del 1908, nobilita in certo qual senso – ma forse solo timbricamente – quell’elegiaco brano pianistico che Ravel scrisse nel 1899: la mesta arcaicità del tema ricorrente e le struggenti varianti gli conferiscono un’aura di trasognata liricità, non connessa tuttavia ad alcuna episodicità da commemorare o nostalgicamente rinverdire.
Diversamente in Mahler: i “Canti dei bambini morti” per voce e orchestra vennero espressamente e consapevolmente tratti dall’omonimo testo letterario del poeta tedesco Friedrich Rückert, una sorta di doloroso memoriale, pubblicato postumo nel 1872 e legato alla perdita precoce di due dei suoi sei figli. Il tema della morte prematura, quindi, sembra costituire in tale contestualità il ‘praetextum’ per una introspettiva e rinnovata ricerca musicale, forse affrancata dagli idilliaci e fiabeschi toni della poesia popolare (si pensi al ciclo del “Des Knaben Wunderhorn”) e, pertanto, meno fastosa, festosa e ridondante nelle stesse espressioni lessicali e nel trattamento sinfonico del materiale tematico. Di conseguenza, le scelte melodiche rispecchiano una capacità inventiva del tutto originale e ben definita nella sua essenzialità, non protesa o finalizzata al gigantismo dei necessari sviluppi che condizionano e contrassegnano l’ambito delle sue “sinfonie”. Quel citato trattamento evidenzia, di contro, la rinuncia ad una strumentazione virtuosistica e soverchiante, più sensibile e orientata verso una timbricità estremamente raffinata. Naturalmente, in base ai testi scelti (ma rivisitati e riadattati) nell’ampio contesto di 448 componimenti poetici e sulla scorta dell’intimismo motivico dispiegato, si potrebbe ravvisare nell’ambito compositivo e temporale dei cinque Lieder (“Nun will die Sonn’ so hell aufgeh’n” – “E oggi il sole vuole ancora sorgere così splendente”; “Nun seh’ ich wohl, warum so dunkle Flammen” – “Ora vedo bene perché fiamme così oscure”; “Wenn dein Mütterlein” – “Quando la tua mammina”; “Oft denk’ich, sie sind nur ausgegangen” – “Spesso penso siano solo usciti per una passeggiata”; “In diesem Wetter, in diesem Brausen” – “Con questo tempo, in questa bufera”), ultimati nel 1905, una vaga premonizione – forse solo “estetica” – del grave lutto che dopo due anni colpì Mahler (la perdita della figlioletta Maria). Supposizioni: eppure, lo spirito di quel «commovente capolavoro lirico», come lo definì Bruno Walter, pervade e condiziona i susseguenti immensi affreschi sinfonici, come la “Quinta” o la “Sesta”, poiché – proseguendo ancora nella dotta citazione – se «l’ispirazione nel Lied è il fine, nella sinfonia [è] il mezzo».
Dall’acume critico del mitico Walter al fine intuito di Temirkanov: la sua lettura dei “Kindertotenlieder” si è rivelata estremamente coerente e del tutto conforme alla rappresentazione di quei princìpi ispirativi, anche in grazia della perfezione esecutiva palesata dall’Orchestra e, soprattutto, della inappuntabile vocalità espressa dal baritono Markus Werba. La sua interpretazione ha profondamente compenetrato l’opera mahleriana, esaltandone e vivificandone proprio il sostrato emotivo: a riprova le entusiastiche acclamazioni del pubblico e le numerose “chiamate” sul proscenio.
Nella seconda parte del concerto si è potuto assistere ad un’irripetibile e – nello spirito della serata – memorabile esecuzione di ciò che viene considerato il capolavoro assoluto di Brahms, la “Sinfonia n. 4” in mi minore op. 98: un’immensa pagina sinfonica, forse la naturale conclusione del genere in senso classico, prima che i grandi sinfonisti del Novecento ne snaturassero forma e sostanza. Composta fra il 1884 e il 1885, già nel primo movimento (“Allegro non troppo”) mostra la fase terminale della dialettica tematica, nel senso che quella penetrante melodicità, espressa ex abrupto dai violini, s’impone quasi a livello episodico, fino a contrapporsi con un incessante fluire di gemmazioni motiviche, poi riproporsi al termine del processo espositivo e, di seguito, prestarsi a complessi sviluppi, intrecciandosi con le altre enunciazioni e arricchendosi nella coda finale di ampie e doviziose sonorità.
Similmente i due tempi centrali (“Andante moderato” e “Allegro giocoso”) si fondano su tale principio monotematico, avvalendosi di tematismi derivati e di contorno, quali residui dialettici della forma-sonata, pur se nel terzo, vagamente assimilabile ad uno “Scherzo” (ma in ritmo binario), emergono e si evidenziano artifici contrappuntistici di notevole complessità, che preludono a quanto si concreterà nel movimento finale. L’“Allegro energico e passionato”, infatti, rappresenta una summa della concezione compositiva brahmsiana, espressa nella definizione schönberghiana della variazione di sviluppo: un breve tema, di solo otto battute, che rammenta un possibile riferimento ad una remota “Passacaglia”, si snoda e si evolve lungo il corso di ben trentasei variazioni (appunto), sempre intessute e connesse fra loro.
Tutta la poetica del grande compositore amburghese si disvela in questo grandioso finale: i caratteri, ora appassionati, ora popolareschi, ora bucolici, ora idilliaci e ora struggenti, si alternano e si susseguono senza posa, sempre sorretti da una straordinaria abilità nel linguaggio lineare, nelle disposizioni polivoche e nel superbo trattamento strumentale. Quel genere sinfonico, quella forma e quella sostanza venivano allora quasi suggellati: nel presente possono ancora mostrare e rappresentare l’essenza della pura arte, ma solo se una grande orchestra, abilmente diretta da un “grande” della contemporaneità musicale, ne interpreta l’essenza e gli intimi contenuti.
Gli astanti hanno ben compreso l’eccezionalità dell’evento, tributando agli interpreti scroscianti e prolungati applausi.
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