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Nuove Brigate Rosse, al via il processo d’Appello. Tutto da rifare dopo l’azzeramento delle condanne

Nuove Brigate Rosse, al via il processo d’Appello. Tutto da rifare dopo l’azzeramento delle condanne

Prende il via oggi a Milano il nuovo processo d’appello alle cosiddette nuove Brigate Rosse dopo che, a febbraio, la Cassazione ha annullato con rinvio le condanne inflitte il 24 giugno 2010 a 12 imputati accusati di aderire alle Nuove Brigate Rosse e di avere avuto ’nel mirino’ il giuslavorista Pietro Ichino.

Sempre la Suprema Corte ha annullato anche la costituzione di parte civile del giuslavorista che, secondo l’accusa, sarebbe stato nel mirino del Partito comunista politico-militare, di cui avrebbero fatto parte gli imputati.

L’inchiesta, condotta dal pm Ilda Boccassini, aveva portato a diversi arresti nel Nord Italia nel 2007. Gli imputati erano stati condannati in primo grado nel giugno 2009. Un anno dopo la conferma in appello: le pene più pesanti erano andate a Davide Bortolato e Claudio Latino, considerati i leader delle cellule padovana e milanese (14 anni e 7 mesi). Undici anni e 4 mesi erano invece stati inflitti ad Alfredo Davanzo, ritenuto l’ideologo del gruppo, e ancora 13 anni e 5 mesi a Vincenzo Sisi; 10 anni e 10 mesi a Bruno Ghirardi; 10 anni e 8 mesi a Massimiliano Toschi; 8 anni a Massimo Gaeta. Altri 4 imputati avevano invece avuto pene inferiori ai 4 anni. Federico Salotto, in primo grado condannato a 3 anni e 6 mesi, era stato infine assolto.

Nell’appello bis, dunque, potrebbero aprirsi spazi per condanne più miti se rimanesse in piedi solo la semplice associazione sovversiva punita dall’art.270 cp. Per la Suprema Corte non è chiaro se le nuove Brigate rosse-Partito comunista politico militare (Pcpm), intendessero esercitare una violenza di tipo ‘comune’ su bersagli mirati, oppure una violenza ‘terroristica’ che accettava il rischio di vittime collaterali o addirittura voleva colpire indiscriminatamente la popolazione per suscitare panico e destabilizzare gli assetti istituzionali.

Per quel che riguarda le imputazioni la Cassazione ha avvolarato la ricostruzione delle sentenze di merito e l’impianto dell’indagine. “Le intercettazioni, le dichiarazioni del collaboratore di giustizia Valentino Rossin, l’ esito di perquisizioni e sequestri, pedinamenti e riprese video della polizia giudiziaria”, hanno scritto gli ermellini, hanno dimostrato “l’esistenza di una struttura operativa, sufficientemente gerarchizzata al suo interno” con il “quadrumvirato Davanzo-Latino-Bortolato-Sisi”, intonata “a un ben preciso credo politico”, forte di “una cassa comune, una sede centrale a Milano e articolazioni periferiche in Piemonte e Veneto, un poligono di tiro, un sicuro rifugio e un foglio di propaganda”.

Un’associazione, quindi, “tesa alla realizzazione di un programma ‘rivoluzionario’ che prevedeva l’ uso sistematico della violenza, e che a tale scopo si era dotata di un considerevole quantitativo di armi micidiali”. E tuttavia per la Cassazione, i giudici della Corte d’Assise d’Appello milanese, nella loro motivazione della sentenza di condanna, non hanno indicato “con quali modalità” le azioni che erano state progettate dagli imputati, come l’agguato a Ichino appunto, avrebbero dovuto essere realizzate.

Non è stato chiarito, insomma, se la banda armata, “che certo aveva intenzione e capacità di esercitare la violenza, aveva anche intenzione e possibilità di utilizzare metodi terroristici per conseguire il suo programma di eversione dell’ordine costituzionale”. Per la Cassazione nella sentenza d’Appello non è stato specificato se “tra gli effettivi progetti” degli imputati “vi fossero esclusivamente obiettivi ‘di elezione’ (per ottenere un effetto paradigmatico e innestare magari meccanismi di emulazione)” oppure se la banda armata avesse anche “il proposito di intimidire indiscriminatamente la popolazione, l’intenzione di esercitare costrizione sui pubblici poteri, la volontà di destabilizzare o addirittura distruggere gli assetti istituzionali del Paese”.

Tra gli obiettivi degli imputati, oltre a Piero Ichino, c’erano anche la casa ‘storica’ di Berlusconi in via Rovani a Milano, la sede del quotidiano Libero, da colpire prima di Pasqua, le sedi di Mediaset e di Sky a Cologno, l’Eni a San Donato (da colpire addirittura con un’autobomba), i vertici dell’Eni.

Anzi, le indagini condotte dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini avevano portato a credere che l’azione più eclatante dovesse essere quella immaginata contro il dirigente dell’Eni Vito Schirone, anche se i presunti brigatisti non si erano ancora decisi tra due opzioni terribili: la prima prevedeva il sequestro, per ottenere anche una certa disponibilità economica all’organizzazione. La seconda puntava invece a gambizzare la vittima, ottenendo il massimo della pubblicità da un’efficace rivendicazione.

Lo scopo finale era quello di rovesciare lo Stato, ma prima di arrivare alla lotta armata vera e propria, il movimento pensava soprattutto a colpi dimostrativi, ad azioni per fare consenso, soprattutto proseliti. Proprio per questo due dei più giovani si erano iscritti e frequentavano con impegno l’Università di Milano.

La Cassazione ha anche annullato, disponendo anche per questo un nuovo processo, anche la condanna degli imputati a risarcire 100.000 euro che erano stati riconosciuti a Piero Ichino per i danni morali. Per la Suprema Corte, in questo caso, la Corte d’Appello milanese “ha omesso di chiarire quale danno abbia riportato il professore e quale rapporto causale sia esistito tra l’eventuale danno e la condotta degli imputati, visto che i propositi di attentato, captati nelle intercettazioni, non furono portati ad esecuzione, né risulta che Ichino li abbia percepiti e ne abbia inevitabilmente ricavato turbamento e preoccupazione”.