Che rabbia!
Roberto entra in casa, è stata una giornata dura. Sguardo torvo, pugni stretti, risponde male. Si siede a tavola e critica con disprezzo. Scoppia la litigata con i presenti, finisce in camera sbattendo la porta.
Roberto, nelle illustrazioni di Mireille d’Allancé, avrà 7-8 anni, ma potrebbe averne 16, 47 o 93, perché cosa fare della propria rabbia è una questione complicata che ci accompagna per tutta la vita. E tutto inizia prepotentemente intorno ai 2 anni.
The terrible two
I bambini tra i 20 e i 36 mesi si trasformano improvvisamente in piccoli dittatori, attori isterici, picchiatori strafottenti e black bloc casalinghi. Il mondo psico-pedagogico anglosassone osserva il fenomeno da tempo, coniando per il periodo una definizione ad hoc: the terrible two. In Italia le caratteristiche peculiari di questa fase sono meno note. Perché? I nostri bambini non si arrabbiano? Non urlano, non piantano grane, non ci imbarazzano con crisi esplosive nel bel mezzo del matrimonio del datore di lavoro?
Anche i nostri bambini di due anni sono, in effetti, spesso terribili e i genitori, comprensibilmente, si allarmano; è interessante dunque chiedersi cosa succede nel belpaese, non preparato all’arrivo della rabbia dei duenni (e sfornito del termine adatto per ingabbiarla).
Attenti a quei due
Per quello che ho potuto osservare, di fronte al bambino in preda all’ennesima reazione collerica, i genitori italiani spesso colpevolizzano se stessi (“è colpa nostra, l’abbiamo [viziato/abbandonato/sgridato/accontentato/ etc.] troppo”) o gli altri (“è colpa dei nonni/ della tata/ della scuola/ etc.”): questi due atteggiamenti si differenziano nella scelta del colpevole, ma entrambi indirettamente inibiscono lo svilupparsi di un’analisi obiettiva della situazione e dunque – e qui c’è la trappola – frenano la spinta al problem solving. Colpevolizzarsi è certamente un atto di umiltà, è utile se si trasforma rapidamente in disponibilità all’ascolto e al cambiamento. Non è utile se si arena nella lamentatio, ovvero se diventa una forma più sofisticata di egocentrismo, una condizione per cui sotto l’obiettivo c’è il genitore, seppur mortificato e autoflagellante, e non il bambino, lasciato solo ad affrontare il momento difficile. Colpevolizzare gli altri, invece, può avere tanti significati e nel contesto educativo ne ha uno in particolare: deresponsabilizzarsi. E il bambino è solo di nuovo. Lamentazione egocentrica e colpevolizzazione deresponsabilizzante: fossero queste le dogane italiane che non hanno permesso lo sbarco del termine anglofono?
Un bambino a cui un amichetto ha rubato il gioco reagisce con un morso da tigre. Lo sgridiamo – giustamente – ma alla nostra irritazione si aggiunge una sfumatura scandalizzata “come ti è venuto in mente di fare una cosa del genere?! È colpa nostra/loro?”.
Se invece di scappare a dare la colpa a qualcuno rimaniamo accanto al bambino possiamo chiederci: cosa avrebbe dovuto fare secondo noi? E questa non è una domanda retorica.
Indignati degli indignados?
Quale reazione all’ingiustizia (reale o percepita) riteniamo accettabile?
Urlare? Certi bambini possono urlare con potenze vocali da teatro dell’opera, i genitori imbarazzati e/o infastiditi difficilmente apprezzano. Lanciare oggetti? Pericoloso e dannoso. Picchiare gli altri? Violento e penale. Picchiare se stessi? Autolesionista. Ignorare, ovvero introiettare la rabbia? Disturbi psicosomatici, disturbi ossessivo-compulsivi, depressione.
Parlarne! Ma il focoso derubato ha due, massimo tre anni, se va bene riesce a formulare una frasetta, ad urlare un “no!” perché ci vorrà del tempo prima che il canale verbale diventi quell’autostrada automatica e preponderante che sperimentiamo noi adulti. E comunque, purtroppo, non sempre parlare risolve: “Ridammi la macchinina!” “No!”, e siamo punto e da capo.
Insomma, quale strada rimane libera alla rabbia? Quale strada rimane accettabile per l’indignazione dei bambini e degli adulti?
Gli accadimenti di ottobre nella manifestazione che ha devastato Roma, rilanciano questa domanda a livello sociale, politico, psicologico ed è la stessa domanda che si pongono – o dovrebbero porsi – i genitori dei bambini di 2 anni. La risposta non è univoca, non è ovvia e forse è personale, cioè attinge ai valori e all’etica della singola famiglia.
Quello che però determina la differenza è farsi carico (in qualche modo, nel proprio modo) della formazione emotiva ed etica dei propri figli oppure no.
Spesso si evita di affrontare questo compito sperando nel passare del tempo, il terribile – molto più terribile dei terrible two - “crescerà!”.
Certamente crescerà, ma come?
L’etica non è uno smoking
Se vogliamo che nostro figlio sviluppi un tronco solido, delle radici profonde, una fronda libera che produca frutto, andrà impiegato tempo e cura nell’aiutarlo a prendere una direzione, andrà guidato e supportato, perché possa affrontare le sfide dello sviluppo come delle occasioni di crescita e non come ostacoli da evitare.
L’etica definisce la forma che assume la nostra quotidianità. È un abito da lavoro, non è lo smoking per le serate speciali. La formazione “umana” si gioca su occasioni colte o non colte, ovvero eventi letti e compresi insieme al sostegno di una guida attenta, o risolti di fretta, sfuggendone i significati problematici.
Molte sono le domande serie dell’educazione, e riguardano certamente anche la gestione della rabbia, l’idea di giustizia, il concetto di rispetto di sé e degli altri.
Ovviamente ogni cosa ha il suo tempo e si tratta di declinare queste domande complicate in tante piccole occasioni di riflessione alla portata dell’età del bambino, cosa certamente non facile.
Il libro “Che rabbia!”- quasi un classico – di Babalibri è un ottimo modo per cominciare, per esempio proprio con i bambini terrible two, a riconoscere cos’è quel sentimento soverchiante che arriva da dentro, rosso come il fuoco, che fa ruggire. La rabbia a volte è inevitabile e spesso anche giusta, è una carica che rende forti, può dare coraggio, aiuta a non essere vittime passive di ingiustizia, sostiene nella tutela dei propri diritti.
Ma bisogna riconoscerla, e sapere che quando è fuori controllo può danneggiare, può distruggere, può ferire le persone, può trasformarci in mostri.
Normalizzare la fase dei terrible two, così come avviene nel mondo anglosassone, sposta felicemente il focus dall’inutile “cosa abbiamo fatto di male?” fino a raggiungere la complicata questione di come educare alla giustizia e alle emozioni, senza lasciare scampo a defezioni genitoriali: è una fase necessaria, come lo svezzamento, come il controllo sfinterico, non è un incidente o un fuori programma. Nessuno dunque può tirarsi indietro.
Alla fine Roberto si affaccia dalle scale, la rabbia è stata contenuta e messa in una scatola, ha riparato i danni, e ha il viso contento di chi ha capito qualcosa; chiede delicatamente se è rimasto un po’ di dolce.
Festeggeranno insieme un’occasione di crescita o daranno la colpa ai cartoni animati violenti?
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