Il ritorno (a casa) dei Gitani
Nell’immaginario europeo i Balcani costituiscono storicamente un luogo in cui si proietta l’ombra delle immagini collettive occidentali: cosi’ vengono percepiti come un limitrofo “cuore di tenebra”, oscuro, irrazionale, conflittuale ma allo stesso tempo fascinosamente perturbante.
I Rom, i nomadi o zingari, rappresentano forse una delle figure più centrali di questa relazione di alterità tra Est e Ovest europeo, un popolo riconosciuto per antonomasia come diverso, l’altro da combattere perché sfuggente e indefinibile, spesso incomprensibile, e che appare difficilmente assimilabile agli occhi degli Europei quando si trovano a confronto con comunità nomadi emigrate nei paesi a Occidente. Capire l’universo del popolo Rom è un compito indecifrabile per un gajo (non Rom), nelle parole di Isabel Fonseca1 (1995) “i Rom non si riconoscono in una storia collettiva da tramandare, ma in una serie di miti e leggende in cui la verità è semplicemente la versione più accattivante di un fatto forse accaduto”. Paradossalmente, spesso per queste persone il passato si confonde con il presente nel momento in cui viene racconta, e la memoria storica diviene pressoche’ inesistente, lasciando spazio all’ affabulazione. La loro identità non deriva dall’appartenenza a un popolo ma all’identificazione con piccoli clan, che parlano un lingua più o meno condivisa il romane oppure da usanze e rituali che escludono l’esterno come impuro e l’interno (del gruppo o della casa) come puro, rendendo il loro piu’ importante punto di coesione e di forza proprio la disinformazione dei gaje (tutti quelli che non sono Rom). Ma i nomadi non si riconoscono in una categoria omogenea: nell’arco dei secoli i Rom hanno incluso diverse comunità, assorbendo outsiders e altre culture mentre migravano da un paese all’altro facendo in modo che si creasse un patchwork di gruppi che si possono autodefinire liberamente ora come Rom o Gypsy, Zingari o Romani, Sinti, Ashkali a seconda delle diverse usanze, tradizioni e culture praticate. I Rom sfuggono alla logica categoriale che vuole definire l’identità in positivo, risulta molto più semplice osservare la loro estraneità all’altro, la tensione che si crea quando interagiscono un altro gruppo in un altro contesto, ad esempio una volta arrivati nei paesi di destinazione. Assumendo questa prospettiva è possibile cogliere come in un gioco di specchi la dinamica relazionale profonda di quel processo di co-definizione (ma sarebbe meglio dire di co-costruzione) identitaria che riguarda sia i Rom quanto i loro ospiti. La guerra nei Balcani ha provocato una massiccia migrazione dei gruppi nomadi verso tutti i paesi europei ed i Rom sono entrati prepotentemente, come vittime bisognose di una compensazione per le sofferenze subite. A partire dal novembre del 2010, i paesi Europei e Scandinavi hanno iniziato ad implementare politiche di rimpatrio forzato nei confronti dei Rom, in particolar modo verso il Kosovo, paese di provenienza. Di fatto questa scelta politica2 colpisce spesso individui e gruppi famigliari vulnerabili, che una volta rientrati devono affrontare discriminazione, marginalità ed estrema povertà rientrando in un circolo vizioso (Human Rights Watch http://www.hrw.org/news/2010/10/27/kosovo-europe-returning-roma-face-hardship). Nel 2011, diverse famiglie Rom e Ashkali (nomadi di etnia albanese) sono state forzatamente fatte tornare nell’originario ghetto del Roma Mahalla nella citta’ di Mitrovica, che nel 1999 era stato raso al suolo dalla rappresaglia che gli albanesi avevano organizzato per punire i collaborazionisti con il regime serbo di Milosević. La discriminazione nei confronti dei Rom e’ spesso opprimente anche nei loro paesi di origine, dove vivono in condizioni di poverta’, analfabetismo e vulnerabilita’. Ogni famiglia, ogni individuo che e’ stato lontano a volte per lunghi anni ha una storia diversa da raccontare. La nostalgia di quella vita da stranieri in un mondo organizzato, dove lo Stato provvede educazione per i bambini, cure per chi sta male, controlli di polizia nel caso in cui qualcuno eserciti violenza sui piu’ deboli traspare in tutti coloro che sono ritornati. E cio’ che impressiona fortemente e’ l’assimilazione culturale, se non l’ integrazione nel paese di destinazione. I Rom che hanno vissuto nei paesi Scandinavi hanno imparato a parlare almeno altre due lingue, inglese e svedese o norvegese ad esempio; in Germania a lavorare come operai specializzati, in America a guidare auto gigantesche come documentano le foto di alcuni parenti emigrati molto tempo prima e mai rientrati. Il ritorno in Kosovo e’ spesso traumatico per i bambini, i piu’ abili ad integrarsi nel paese di destinazione e sensibili nel cogliere le differenze con i loro pari che da qui non si sono mai spostati. Tutti dichiarano di voler ripartire appena possibile, troppe poche prospettive qui per il futuro. Meglio essere outsiders nelle periferie di paesi piu’ sviluppati in grandi citta’, come Belgrado, Zagabria, o le cittadine tedesche dove l’assistenza viene garantita, o in Francia dove in molti hanno cugini o fratelli e sorelle che campano lavoricchiando e possono supportare i nuovi arrivi. Ma l’Italia non sembra in cima alla lista dei luoghi dove andare anche se in molti tra coloro che l’hanno visitata dicono di averci lasciato il cuore, per la bellezza e la facilita’ a raggiungerla. Ma sorprendentemente, solo pochi ammettono che vorrebbero migrare nel paese dove i Sinti hanno il controllo di Roma e di molti loschi traffici e dove la societa’ non sempre e’ in grado di promuovere integrazione e diritti, ma assicura di poter vincere la sfida dell’adattamento utilizzando la forza e l’illegalita’.
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