Lavoro: quale svolta storica, è solo una svolta all’indietro
Guai a parlare di svolta storica a proposito del disegno di legge sulla riforma del mercato del lavoro. Di svolte se ne intravvede una sola: all’indietro. La visione del lavoro che ispira questo provvedimento riporta le lancette della storia a ritroso di almeno vent’anni. L’esecutivo sembra credere in un’idea del mondo dell’impresa e del lavoro identica a quella che viene presentata nei talk show televisivi: una realtà fatta di imprenditori famelici e truffaldini e di lavoratori umiliati ed offesi, mortificati nei loro diritti, condannati – specie se giovani – ad una vita da precari, fino a rappresentare il c.d. precariato come uno status, quasi una classe sociale, alla stregua dello stereotipo del c.d. proletariato nel secolo scorso. Il problema di questa (mancata) riforma non sta nei bizantinismi di come viene definito il ruolo del giudice nel caso di licenziamento per motivi economici: se è abilitato a scegliere tra ordinare il reintegro nel posto di lavoro o l’indennizzo oppure se è tenuto soltanto a disporre la sanzione risarcitoria. Per settimane, sotto i riflettori di giornali e tv incapaci di guardare oltre il destino dell’articolo 18, si è sviluppato un dibattito in cui tutti si sono precipitati a dire la loro, ad organizzare scioperi, raccolta di firme, ordini del giorno vibranti e petizioni accorate, infilandosi in quello stretto pertugio rimasto aperto tra le proposte del Governo e le richieste del Pd. La danza macabra intorno all’articolo 18 – che nel frattempo si è trasformato da un logoro totem ad uno sdrucito spaventapasseri – non ha consentito di mettere adeguatamente in luce il punto debole di tutta la vicenda, che sta nello squilibrio con cui sono state poste in relazione tra loro le due grandi operazioni che la riforma avrebbe dovuto affrontare: garantire, mediante una minore rigidità in uscita dal rapporto di lavoro, l’avvio di un migliore quadro di tutele e di stabilità in entrata. E qui che la riforma auspicata diventa una controriforma reale: sulle tipologie del lavoro flessibile è calato un cono d’ombra di sospetto, quasi di illiceità conclamata: vizi occulti da contrastare con una legislazione persecutoria, anche a costo di creare problemi alle imprese, di ostacolare l’occupazione e di ampliare le dimensioni del lavoro sommerso. In extremis, un Pdl, fino allora disattento, è riuscito a corregger in parte questi limiti. E, paradossalmente, il disegno di legge è migliore di quanto ci si poteva attendere dalla lettura del documento sulle linee guida. Ma così come è, la riforma non solleciterà le imprese straniere ad investire in Italia; ne farà scappare parecchie di italiane. Se il Parlamento non troverà il coraggio di modificare ancora questo provvedimento sul versante della flessibilità in entrata non vi sarà nuovo lavoro neppure se dovesse profilarsi un minimo di ripresa economica. Verrà a mancare tanto del lavoro che c’è. Perché le imprese si guarderanno bene dall’assumere forzatamente, attraverso forme di impiego che la globalizzazione ha reso insostenibili.
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