Caso Ruby, il Pm Annamaria Fiorillo smentisce la polizia: “Non ho mai ordinato di affidarla alla Minetti”
Anche a Iafrate, la Fiorillo sostiene di aver detto che Ruby doveva essere ”compiutamente identificata” prima di essere affidata ad una comunità. ”Dissi che non mi interessava se la Minetti svolgeva un incarico pubblico e dissi alla Iafrate che se non intendeva comprendere quello che le dicevo se ne sarebbe assunta ogni responsabilità”. Infine c’è un’ultima telefonata con la Iafrate in cui si parla dei documenti della minore. ”Non ho mai cambiato le mie disposizioni, ho sempre mantenuta ferma la mia disposizione: cioè che la ragazza fosse messa in comunità”, dice la Fiorillo. Che sottolinea: ”Nessun magistrato degno di questo nome” avrebbe affidato la minorenne Ruby alla consigliera Minetti. Tra Fiorillo e gli uomini della Questura c’è stata una attività “meramente orale”, ossia “conversazioni telefoniche”, poi “non ho più avuto visione degli atti che arrivarono molto dopo” a giugno.
“Non mi sono mai occupata dei procedimenti che riguardano la minore, né dell’affidamento del procedimento penale. Io risposi solo al telefono e diedi delle disposizioni”, perché Ruby ”fosse affidata a una comunità”. Ma ricorda che nelle due telefonate con la Iafrate, “lei parlava come se svolgesse un monologo, avevo difficoltà a inserirmi nel discorso. Il suo obiettivo era molto chiaro, ossia affidarla alla Minetti”. Solo il 29 ottobre la Fiorillo scrive una relazione su quella sera. Dopo quella relazioniamo “ci fu un grande interesse dei media, poi il ministro Maroni andò in Parlamento ed espose la versione della polizia dicendo che tutto si era svolto regolarmente. Io dissi ai giornalisti che non era vero e questo ha comportato un provvedimento disciplinare”. ”Quando il ministro Maroni disse che venne affidata alla Minetti seguendo le indicazioni del magistrato attacca la mia onorabilità di magistrato, perché nessun magistrato degno di questo nome avrebbe fatto una cosa del genere”, spiega la Fiorillo. Il procedimento del Csm si è concluso in maniera “salomonica: dicendo che sui fatti contestati si sarebbe deciso in questa sede e che il ministro Maroni non aveva nessuna intenzione di offendermi, per cui non c’è stato nessun luogo a procedere”.
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