Santa Cecilia, da “angelo biondo” a “dark lady” l’entusiasmante performance del direttore-soprano Barbara Hannigan
(Di Sergio Prodigo). Il secondo appuntamento della Stagione Sinfonica dell’Accademia di Santa Cecilia ha avuto come indiscussa protagonista – in una dicotomia interpretativa progressiva, che si è disvelata e manifestata nel finale – il direttore e soprano canadese Barbara Hannigan, eccellente artista eclettica, talentuosa e poliedrica.
Sabato 2 novembre all’Auditorium del Parco della Musica: in un giorno tradizionalmente dedicato alla meditazione e alla commemorazione, il variegato programma del concerto ha offerto due sinfonie d’opera di Rossini, da L’Italiana in Algeri e da La Scala di seta, introduttive e, in certo qual senso, propedeutiche alla prima e alla seconda parte. Erano e sono il simbolo di quella “gioia” interiore che, per il giovane compositore pesarese, si esprimeva in una tematicità elastica e leggera e attraverso un’inventio inesausta e di immediato intendimento: eppure, le stesse fraseologie motiviche, costantemente susseguenti, ricorrenti e sovente apparentate, sostenute da timbricità cangianti e da funzionali sostrati armonici, s’innestano in un contesto strutturale di estrema perfezione formale, pur mutuato dal bitematismo sonatistico. Perfetta l’interpretazione della Hannigan: chiari gesti e decise scansioni hanno guidato magistralmente l’orchestra nel ridotto organico rossiniano, esaltando le simmetrie tematiche, i nitidi passaggi solistici degli “strumentini”, l’efficace “balzato” degli archi e la caratteristica tipicità del “crescendo”.
A seguire (nella prima parte del concerto) tre Arie di Mozart per soprano e orchestra, “Misera, dove son – Ah, non so io che parlo” K. 369, “Un moto di gioia” K. 579 e “Vado, ma dove?” K. 583: a parte la prima, composta nel 1781 su un testo tratto dal libretto di Metastasio per il melodramma Ezio (musicato – come la maggior parte dei libretti del prolifico poeta della corte asburgica – da diversi compositori, fra i quali Händel e Gluck), altamente espressiva e profondamente immersa nella suggestione drammatica, le altre due arie (su testo di Lorenzo Da Ponte) vennero scritte, dal compositore salisburghese, secondo lo spirito di un’abituale prassi che ne prevedeva l’inserimento a posteriori in opere proprie o altrui. Nello specifico “Un moto di gioia” si innestò nelle Nozze di Figaro, mentre “Vado, ma dove?” nell’opera Il burbero di buon cuore di Martín y Soler (rammentiamo anche come tre celebri arie mozartiane, “Ah, spiegarti, oh Dio, vorrei!” K. 418, “No, no, che non sei capace” K. 419 e “Un bacio di mano” K. 541 – tematicamente basata su un inciso della Jupiter – fossero state inserite in due opere del compositore e violinista ligure Pasquale Anfossi). La vocalità della Hannigan si è “mozartianamente” dispiegata nelle tre arie: limpida timbricamente, fedele all’italianità interpretativa nei fraseggi e nei passaggi di bravura e sapientemente amalgamata con l’autonomo “accompagnamento” orchestrale, frutto di abile e pregressa concertazione.
In chiusura della prima parte il Concert Românesc di György Ligeti: si tratta di un lavoro giovanile del compositore ungherese, scomparso nel 2006, uno dei maggiori interpreti del linguaggio musicale del secondo Novecento. Ricco di suggestioni popolari (rumene), a lungo negletto dallo stesso autore, il Concert, nei suoi quattro movimenti aperti e senza cesure (Andantino, Allegro vivace, Adagio ma non troppo e Molto vivace), si rivela forse tributario di analoghi omaggi sinfonici e non alla cultura popolare, ampiamente dispensati da compositori come Bartók e Kodály (ma forse anche Janáĉek), purtuttavia il materiale musicale s’avvale sovente di fresca inventiva, non direttamente mutuata da quella cultura ma elaborata sulla suggestione anche onirica del ricordo. Maiuscola ed esaltante la prova dell’intera orchestra, ai limiti di un vistoso virtuosismo palesato da tutte le sezioni: smesso l’habitus della raffinata interprete mozartiana, Barbara Hannigan ha affrontato la complessa partitura con vigorosa ed efficace determinazione, parafrasandone i contenuti in una coerente lettura delle componenti ritmiche e motiviche e suscitando entusiastiche e prolungate ovazioni dei numerosi astanti.
Dopo la citata sinfonia da La scala di seta, l’esecuzione nella seconda parte della Suite op. 80 di Gabriel Fauré, “assemblata” e riorchestrata nel 1901 dalle sue musiche di scena per il Pelléas et Mélisande di Maeterlinck (composte “frettolosamente” nel 1898): il compositore francese, saldamente ancorato al solco della tradizione classica, amava privilegiare le forme cameristiche, liederistiche e pianistiche (si pensi, nel contesto della sua notevole produzione pianistica, ai tredici Notturni che rappresentano quasi una costante compositiva alla stregua di pagine intime o di momenti di profonda riflessione e meditazione, dai primi tre dell’op. 33, scritti nel 1883, fino all’ultimo op. 119, terminato nel 1921). Nel simbolismo del Pelléas, prima che i suoi contenuti venissero espressi in modi difformi da Debussy (nel sognante e diafano capolavoro operistico) e da Schönberg (nel mastodontico poema sinfonico), Fauré coglie i temi rappresentativi del fiabesco e della tragicità latente, mutandoli in un intimismo musicale di meditata espressività. Ampi spazi, pertanto, si sono aperti alla fantasia di chi ne ha inteso le doviziose espressioni motiviche e di chi ha interpretato con profonda compenetrazione e in simbiosi con la compagine orchestrale lo spirito e l’essenza musicale dei quattro movimenti della Suite (Prélude, Fileuse, Sicilienne e La mort de Mélisande).
Infine, dopo un naturale lasso di tempo (necessario per la preparazione della scena), il concerto si è concluso con l’attesa esecuzione di Mysteries of the Macabre di György Ligeti (nella felice trascrizione di Elgar Howarth di tre brani – tratti dall’opera Le Grand Macabre – per soprano di coloratura e ensemble strumentale). Va evidenziato, al riguardo, come, dopo i lavori degli anni sessanta, legati agli stilemi della neoavanguardia e caratterizzati sia dall’uso di larghe fasce cromatiche statiche sia da una mobile micropolifonia (Atmosphères per orchestra, Requiem per soli, coro e orchestra, Lux Aeterna per coro e Ramifications per archi), lo stile di Ligeti si fosse quasi modificato e avesse accolto componenti retrospettive e allusive di linguaggi pregressi (appunto nell’opera Le Grand Macabre, nelle 3 Phantasien per coro e nel Concerto per violino e orchestra): in effetti, gli elementi di un linguaggio “rivisitato”, con l’allusione quasi allucinata a echi mozartiani e rossiniani, si avvertono maggiormente nella versione cameristica dell’opera (rappresentata a Stoccolma nel 1978 e liberamente tratta da La balade du Grand Macabre di Michel de Ghelderode), che ne esalta e ne vivifica il senso del grottesco, del paradossale e, appunto, del macabro virtuale.
Ugualmente e fedelmente consequenziale si è rivelata l’esecuzione medesima: coadiuvata dagli eccellenti solisti dell’orchestra, Barbara Hannigan ha interpretato musicalmente, direttorialmente, scenicamente, coreograficamente e teatralmente la complessa e ardua partitura, palesando a pieno una straordinaria versatilità. Se la mutazione da “angelo biondo” a “dark-lady” ne ha mostrato ex abrupto solo la sensuale esteriorità, dopo il primo e forte impatto emotivo sia una fisicità quasi sconcertante, sia una determinazione gestuale e sia una energia e una tecnica vocale senza confini si sono, di contro, manifestate ed espresse a livelli inusuali, imprimendosi per molti nella memoria degli eventi musicalmente memorabili. Infatti, entusiasticamente il pubblico della prima serata ha accolto e applaudito questa artista di raro e multiforme talento (costantemente acclamata dalla critica internazionale: basti pensare solo al successo della sua Lulù al Teatro dell’Opera di Bruxelles nello scorso anno): così (sarà) anche nelle repliche di lunedì e martedì.
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