Caso Meredith, il j’accuse di Sollecito: “Non sono un assassino spietato, persecuzione allucinante”. Un castello di accuse senza una prova
”Sento nei miei confronti una persecuzione allucinante. Non sono un assassino spietato”. Raffaele Sollecito prende la parola nel corso del nuovo processo d’appello per l’omicidio di Meredith Kercher davanti la Corte d’Assise di Firenze nel quale è imputato insieme all’ex fidanzata Amanda Knox. Ringraziando i giudici per la loro disponibilità ad ascoltare le sue dichiarazioni, il giovane spiega di essersi deciso a parlare in aula perchè non ritiene più tollerabile il modo in cui il nome è “trattato dai media in tutto il mondo” e ripercorre brevemente la sua vita giovanile.
Sollecito racconta che quando viveva a Perugia era una persona “estremamente riservata ed impegnata solo a studiare” tanto che fino ad allora non aveva avuto neppure il tempo di innamorarsi fino a quando non ha incontrato Amanda. “Amanda è stato il mio primo vero amore- dice – eravamo agli albori di una storia spensierata, nel nostro nido di desideri vivevamo una piccola favola. Avevamo 20 anni e tutto c’era nella nostra mente fuorché essere così spietati nei confronti di un essere umano. Adesso – aggiunge – mi sento in colpa per non aver preso sul serio questa situazione”.
Nelle sue dichiarazioni Sollecito sostiene che tutte le accuse mosse nei suoi confronti “non hanno nessun fondamento reale”. “Sono state costruite prove e portati testimoni per costruire una realtà che non esiste. I testimoni sono stati sbugiardati, non ho mai conosciuto Rudy Guede e altre persone sono risultate dei mitomani. E dopo sei anni vengono tirate in ballo cose completamente fuori dalla realtà se non ridicole”. ”Sono cresciuto orgoglioso in una famiglia italiana perbene e anch’io sono una persona perbene ed onesta. Vengo descritto invece come un assassino freddo e spietato. Io non sono niente di tutto questo”, continua l’imputato che offre anche alcuni dettagli sulla sua vita privata: “Non mi piacevano tanto le feste, non mi è mai piaciuto l’alcol e qualche volta ho fumato uno spinello ma ciò non ha mai cambiato il mio vero modo di essere”.
Auspicando che venga affermata la sua innocenza, Sollecito parla anche di quando “fui gettato in carcere” e per sei mesi rimase in isolamento, e sottolinea più volte come la sua vita sia stata “stravolta, annientata” dalle accuse mossegli durante il processo per l’omicidio Meredith. “Non auguro a nessuno di vivere ciò che ho vissuto io -dice – La mia vita di prima è stata cancellata e per me è difficile guardare avanti con ottimismo, con fiducia. Ora battaglio ogni giorno per la verità su questa vicenda”.
Quindi, con voce rotta dal pianto conclude chiedendo ai giudici della Corte di “considerare il grosso sbaglio che è stato fatto” permettendomi così di “avere di nuovo una vita reale”. Il giovane, accompagnato dal padre Francesco, è arrivato al Palazzo di Giustizia un’ora prima dell’inizio dell’udienza, riuscendo così a driblare le decine di giornalisti e operatori radiotelevisivi che lo aspettavano all’ingresso posteriore. In una conferenza stampa al termine dell’udienza, il suo legale Giulia Bongiorno, ha detto che “la voce di Raffaele rotta dal pianto è la risposta a chi lo ha definito un assassino freddo, glaciale, a chi ha diffuso l’immagine di un ragazzo intento solo a fare orge e a uccidere ragazze. Sollecito è una persona autentica più che efficace. Efficaci sono gli attori, lui è autentico. E proprio la voce rotta addolorata è la testimonianza di come la sua vita sia stata stravolta”.
”Siamo abituati a queste dichiarazioni che Sollecito ci ha regalato nel corso degli anni”, si è invece limitato a commentare l’avvocato Francesco Maresca, legale della famiglia di Meredith Kercher. Intanto è scontro sull’esito della perizia svolta su una traccia di Dna trovata sul coltello indicato come l’arma del delitto e illustrata oggi dal maggiore Andrea Berti, perito del Ris di Roma
Per la difesa, la perizia “è di straordinaria importanza perché dimostra ciò che c’è: cioè nulla. Il coltello presentato come l’arma del delitto – afferma l’avvocato Bongiorno – è in realtà un semplice coltello che Amanda usava regolarmente nella cucina della casa di Raffaele. Non c’è non c’è il dna di Rudy o di Meredith. Tutte le prove sono inesistenti”. Sulla stessa linea l’avvocato Maori, che ricorda: “Il coltello venne trovato a seguito dell’intuito investigativo di un appartenente alla polizia giudiziaria che, entrando in casa di Sollecito e aprendo i cassetti, trovò 40 coltelli e penso che quello fosse l’arma del delitto. Su 40 coltelli, quello fu l’unico controllato. E non ha le caratteristiche compatibili con le ferite sul corpo della vittima”.
Diversa la posizione dell’accusa: “La perizia ha confermato quello che noi sosteniamo da sempre e cioè che quel coltello è stato nelle mani di Amanda Knox. Penso che la Corte di Firenze abbia tutti gli elementi per decidere in assoluta serenità”, dice l’avvocato Maresca. Quanto all’assenza del Dna della studentessa inglese, l’avvocato aggiunge: “Questo è un elemento che discuteremo. Per noi il profilo genetico della vittima c’è ed era stato trovato dalla polizia scientifica di Roma”.
Al termine dell’udienza di oggi il presidente Alessandro Nencini ha stilato il calendario: la sentenza per l’appello bis potrebbe arrivare il 10 gennaio 2014.
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