Le magie del violino di Isabelle Faust nel concerto dell’orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia dedicato a Beethoven
(Di Sergio Prodigo) Serata beethoveniana, sabato 16 novembre, all’Auditorium del Parco della Musica: l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, diretta da Jonathan Nott, ha eseguito, nella prima parte, il Concerto in re maggiore per violino e orchestra op. 61, interpretato dalla solista tedesca Isabelle Faust, e nella seconda la Sinfonia n. 6 in fa maggiore “Pastorale” op. 68.
Il Concerto op. 61 è forse un’opera atipica nella produzione per strumento solista e orchestra di Beethoven: non vi si può ravvisare la contrapposizione dialettica fra due elementi, vivificata e incombente, di contro, nei cinque concerti per pianoforte e orchestra, poiché la diversa vocazione espressiva del violino e la sua natura concertante ne inibiscono il rapporto paritario fra blocchi sonori; né, al tempo stesso, vi si può scorgere il mero ruolo orchestrale di supporto, di sostegno e di subordine a reiterati virtuosismi violinistici. La razionale struttura compositiva prevarica sempre tali funzioni attributive, tipiche degli epigoni del classicismo manierista, e tutti gli elementi formali, pur se diversamente intesi, concorrono alla costante razionalizzazione della struttura.
Allegro ma non troppo
Già nel primo movimento, l’Allegro ma non troppo, il bitematismo tende a stemperare la giustapposizione tematica, poiché le due espressioni motiviche sembrano generarsi dalla medesima matrice costitutiva, elaborata sulla congiunzione gradica e affidata alla timbricità dei legni: del resto, proprio il secondo tema, preceduto da una digressione tonale sul distante polo del sesto grado abbassato, nella prima fase espositiva si intende quasi ancorato all’inconsueto ambito della tonica (solo nella contro-esposizione viene “restituito” alla logica della dominante). Ma nulla è lasciato al caso: i quattro colpi iniziali del timpano sulla tonica non rappresentano una minimale fase introduttiva al tematismo, in quanto l’enunciazione conseguente è preannunziata dai quattro enigmatici re diesis dei primi violini (quante difformi esegesi su quell’alterazione inusitata della tonica! un semplice ed enarmonico mi bemolle l’avrebbe relegata nella sfera di una transeunte sesta napoletana, senza che la si dovesse poi interpretare come una geniale intuizione armonica nel particolare e inconsueto contesto di una dominante di sostituzione!).
Il Larghetto
Breve ma intenso il secondo movimento, il Larghetto: strutturato sul principio della variazione tematica, si avvale di una strumentazione leggera ed essenziale, in grado di sostenere i commenti fraseologici del violino, mai sconfinanti nell’inane ornamentazione virtuosistica; funge quasi da raccordo con il terminale e complesso “Rondò” (Allegro), che si rivela, pur nell’elaborata articolazione episodica, quasi impreziosito da un tematismo di gioiosa immediatezza e di subitanea assimilazione, anche in virtù di una costante ritmica a scansione trocaica. Certamente la componente solistica tende a giovarsi maggiormente di virtuosi artifici, ma sempre saggiamente dosati, affinché scalarità, trilli, arpeggi e raddoppi non travisino l’espressività motivica e non occludano quello spirito concertante che pervade e satura l’intero Concerto.
Eccellente e particolarmente raffinata si è rivelata l’interpretazione dell’op. 61 da parte di Isabelle Faust, soprattutto sotto il profilo stilistico: senza indulgere nell’ostentazione di una pur straordinaria tecnica, ha inteso parafrasarne l’autentica natura, restituendo alla cantabilità la giusta misura espressiva, aliena da slanci o da emotivi cedimenti, non conformi ai tratti del linguaggio beethoveniano, chiosato tra l’altro dalla solista tedesca con estrema coerenza e aderenza alle linee essenziali delle diverse componenti fraseologiche. Maggiore ardore e intendimenti espressivi ha certamente palesato nel finale del Concerto, in grazia di una accentuata vigoria dettata dalle molteplici figurazioni di contorno, senza travalicare tuttavia i contenuti estetici della partitura, simbioticamente coadiuvata, soprattutto sul già citato piano stilistico, dalla impeccabile direzione di Jonathan Nott.
Il Largo
Grandi ovazioni del numerosissimo pubblico che letteralmente gremiva la Sala Santa Cecilia dell’Auditorium: i lunghi e reiterati applausi sono stati compensati da un significativo bis concesso dalla straordinaria solista, insignita lo scorso anno (dopo vari riconoscimenti a livello internazionale) del premio Abbiati e al suo debutto nei concerti ceciliani; il Largo della Terza Sonata di Bach, egregiamente interpretato, è apparso, nel suo mesto ma fluido andamento quaternario, come il coerente corollario letterario che avrebbe degnamente concluso e suggellato, anche mercé lo straordinario suono dello Stradivari, la prima parte del concerto.
Nella seconda parte la “Pastorale” ha dato agio all’orchestra di esprimersi ai consueti alti livelli, mantenendo intatta, costante e uniforme quella correttezza stilistica che, nella relativa interpretazione di Nott, la stessa partitura esige e contempla, di là dai noti contenuti programmatici, sovente resi con le diverse intenzionalità espressive, insite in altri capolavori sinfonici beethoveniani.
La Sesta
È certamente atipica in tale contesto la Sesta: di là dalle fantasiose note di Czerny o dalle confusioni lessicali di Schindler sulle supposte derivazioni tematiche ornitologiche, pone essenzialmente in evidenza il rapporto dicotomico fra musica d’arte e musica di natura, volendo intendere con quest’ultima una sorta di principio descrittivo, ma non pittorico, che muta o volge nell’espressione di sentimenti (musicali) l’Erinnerung dell’idillio arcadico. Purtuttavia, i primi due movimenti della Sinfonia, l’Allegro ma non troppo (“Risveglio di sentimenti lieti all’arrivo in campagna”) e l’Andante molto mosso (Scena presso il ruscello), appaiono solidamente connessi agli impianti formali sonatistici, anche se la frequente reiterazione di microformule motiviche mostra, specie nel primo movimento, una tendenza evocativa, a stento non percepibile come possibile rappresentazione scenica: meno percepita, invece, tale sensazione nel tempo susseguente, ove s’avverte maggiormente, in virtù di una staticità tematica iniziale di tipo formulaico, la sintesi musicale dell’astrazione contemplativa.
Di contro, nei tre movimenti, che costituiscono la seconda parte “narrativa” della “Pastorale”, l’Allegro (“Allegro convegno di contadini”), l’Allegro (“Tempesta. Bufera”) e l’Allegretto (“Sentimenti di allegria e riconoscenza dopo la bufera”), i nessi formali soggiacciono a degli specifici intenti evocativi, improntati a un realismo di natura, che si esplicano in una lunga sequenza di eventi illustrati o affrescati ma senza le rituali cesure. Alla maggiore compattezza strutturale di un terzo tempo, configurato ma non forzato nei gioiosi archetipi dello Scherzo, consegue la cupa drammaticità (in minore) di una “letteraria” tempesta, musicalmente avulsa da schemi, che forse stravolge l’idillio, ma solo al fine di ricomporlo nella meditata teofania del Finale.
Tutto ciò si è avvertito nell’ascolto ed è stato reso e raffigurato dall’inappuntabile performance di una compagine orchestrale coesa e tecnicamente ineccepibile ma anche pienamente consonante e conformata alle scelte misurate e aliene da forzature, operate dal direttore.
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