Parco della Musica, forfait di Abbado e Antoni Wit offre un’emozionante alternativa alla direzione dell’Orchestra dell’Accademia S.Cecilia
(di Sergio Prodigo) Un’altra serata beethoveniana, sabato 23 novembre (con repliche lunedì 25 e martedì 26), all’Auditorium del Parco della Musica, in luogo del preannunciato ed eccezionale evento musicale che avrebbe visto sul podio Claudio Abbado: alla guida dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e dell’Orchestra Mozart avrebbe diretto la Sinfonia n. 2 “Lobgesang” di Mendelssohn, ma il Maestro e Senatore a vita, su consiglio dei medici, è stato costretto a cancellare tutti i suoi impegni; delusione e rammarico, certamente, ma congiunti alla speranza che nel prossimo futuro l’evento stesso possa riproporsi a Roma nella medesima cornice.
Va dato atto, tuttavia, all’Accademia di aver offerto al suo pubblico un’avvincente ed emozionante alternativa sul piano artistico, scevra dai contorni di un’affrettata e semplice sostituzione programmatica: tre significative opere beethoveniane, interpretate da Antoni Wit, celebrato direttore d’orchestra polacco, l’Ouverture in do maggiore “Leonora n. 3” op. 72a, la Fantasia in do minore per pianoforte, coro e orchestra op. 80 (con la partecipazione del pianista Roberto Cominati) e la Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92.
Composta nel 1806, la terza delle Ouvertures che Beethoven scrisse per il Fidelio (il suo unico lavoro operistico ma nella concezione tedesca del Singspiel) rappresenta in certo qual senso la sintesi programmatica e musicale dell’intera opera, poiché vi confluiscono strutturalmente gran parte dei suoi elementi narrativi e rappresentativi. Vi s’innestano, pertanto, tematiche o echeggiamenti, sovente solo incidentali (ben diciotto, doviziosamente elencati nel catalogo tematico), ma dispensati in giusta misura all’interno di una dilatata ed espansa forma sonatistica. La lenta e intensa fase introduttiva si mostra quasi presaga di un tematismo principale, scandito con veemenza dalle sincopi e contrassegnato da una componente accordale che ne amplia il periodare e ne favorisce le possibili reiterazioni e la stessa transizione verso l’idea motivica susseguente, tonalmente difforme se non volutamente instabile. Tali elementi, unitamente alle reminiscenze disseminate a iosa, concorrono alla definizione di un impianto formale e di un contesto musicale quasi profetico, almeno nello spirito che verrà espresso, alcuni decenni dopo, dai poemi lisztiani.
Degna e “trascinante” l’esecuzione del capolavoro beethoveniano da parte della compagine orchestrale, vigorosamente diretta da Wit in una lettura ligia ai contenuti espressivi, seppur non aliena da talune apprezzabili forzature emotive.
Di seguito e in consequenziale conclusione della prima parte del concerto la Fantasia op. 80: un brano indubbiamente particolare, che assembla pianoforte, orchestra e coro, avvalendosi di una particolare forma, tale da consentire libertà strutturali, avulse da rigidi schematismi ma non sempre compensate da paritari livelli espressivi o similari contenuti musicali. Un genere, quello della Fantasia, coltivato sovente dai classici, a riprova di uno spirito improvvisativo o di un’immediatezza compositiva svincolata da modelli sistemici: Beethoven ne aveva dato geniale dimostrazione nelle due Sonate quasi un fantasia op. 27, ma, al tempo stesso, aveva palesato un’originalità meno pregnante nella Fantasia op. 77 (altro risalto, di contro, al genere medesimo nel manierismo schubertiano delle fantasie pianistiche).
Nella Fantasia corale si avverte anche il carattere forse occasionale o celebrativo di un brano concepito come degno finale di un evento concertistico particolare (nel dicembre del 1808 venne eseguita presso il Theater an der Wien dopo la Sinfonia n. 4, la Sinfonia n. 5 e il Concerto n.4!). È forse probabile che il Nostro si sia avvalso, per la rapida stesura del brano, di temi, spunti e appunti pregressi, a parte l’ampio uso motivico di un Lied giovanile, composto nel 1795, Seufzer eines Ungeliebten un Gegenliebe: eppure, proprio in tale tematismo, che s’avverte già nell’introduzione pianistica e viene poi variato, sviluppato in concorso con l’orchestra e poi ripreso nell’apoteosi finale anche dal coro, molti hanno ritenuto di ravvisare una sorta di anticipazione del più celebre assunto melodico, presente nel quarto movimento della Nona Sinfonia. In effetti, i punti di convergenza a livello incidentale e i parallelismi strutturali sarebbero molteplici, anche se l’ode schilleriana presenta una più complessa organicità costitutiva: del resto, un ulteriore riferimento – forse ancora più manifesto – sarebbe lecito ravvisarlo in un altro brano liederistico, Mit einem gemalten Band, tratto dai Drei Gesänge op. 83, composti successivamente nel 1810 (su testo di Goethe), poiché la corrispondenza con l’esordio si mostrerebbe maggiormente esternata (pur se il prosieguo della fraseologia del Lied evidenzia, poi, una netta difformità).
Di là da tali considerazioni, che tuttavia possono riflettersi anche su un ascolto acritico, la Fantasia op. 80 ha mostrato all’atto esecutivo i suoi innegabili pregi e, soprattutto, l’avvincente fusione dei tre elementi timbrici: inappuntabile e fedele al pianismo beethoveniano la performance di Roberto Cominati, sempre su valori di eccellenza l’orchestra, ma preme rilevare in particolare l’ottima prestazione del coro dell’Accademia (preparato e curato sempre ad alti livelli da Ciro Visco) e dei solisti (Mascia Carrera, Anna Maria Berlingerio, Antonella Capurso, Antonio Rocchino, Francesco Toma e Andra D’Amelio).
Nella seconda parte del concerto la Sinfonia n. 7 in la maggiore op. 92: composta fra il 1811 e il 1812, venne eseguita nel dicembre del 1813 nella sala grande dell’Università di Vienna congiuntamente all’Ottava Sinfonia, alle musiche di scena per Die Ruinen von Athen op. 113 e per König Stephan op. 117 e alla “fantasmagorica” Ouverture Wellingtons Sieg oder die Schlacht bei Vittoria op. 91. Nel contesto di una manifestazione decisamente “patriottica” e di là da essa, la Settima Sinfonia s’impose al pubblico viennese per quella straordinaria componente ritmica, insita in ogni cellula tematica del primo, terzo e quarto movimento, che spinse Richard Wagner a racchiuderne lo spirito e l’essenza nella felice espressione di “apoteosi della danza”. Eppure, fu l’irripetibile Allegretto, ossia quel secondo movimento di rara e perfetta fattura formale tripartita, a suscitare entusiasmi e decretarne, allora e nel prosieguo inestinguibile del tempo, il successo e il novero perenne nella sfera del sublime. Quel subitaneo accordo introduttivo dei fiati, sospeso dalla sua natura armonica di secondo rivolto triadico, quella lenta fusione di due temi ricchi di pathos e interconnessi in un virtuale fugato, dipoi quell’andamento echeggiante il monometro dattilico, che pervade perfino la levità dell’intermezzo in maggiore: il tutto concorre alla definizione del topos più espressivo possibile, sia intrinsecamente sia estrinsecamente, nell’ambito di un organico capolavoro sinfonico, nobilmente interpretato dall’orchestra e coerentemente diretto da Antoni Wit.
Giusto suggello, quindi, per una bella serata musicale di fine novembre, che il non numerosissimo pubblico ha mostrato di apprezzare nell’equanime e appropriata misura, in attesa del prossimo evento (Mozart e Bruckner con il prestigioso binomio Błechacz-Nagano).
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