Dal ragazzo di 22 anni pieno di rabbia all’eroe allegro e spiritoso capace di pacificare e liberare il suo popolo dall’Apartheid
PREMIO NOBEL per la Pace, condannato all’ergastolo, rinchiuso per 27 anni in un durissimo carcere, protagonista indiscusso della lotta contro l’apartheid. Con Nelson Mandela il mondo perde il simbolo universale della lotta per la giustizia e la libertà. Mai, in secoli di storia, c’è stato un altro uomo o un’altra donna che hanno speso gran parte della vita per sconfiggere le discriminazioni razziali e trasformare il loro paese, il Sudafrica, il Gigante africano, in una moderna democrazia. In queste ore l’intero pianeta piange la scomparsa di una figura mitica, allegra, spiritosa ma anche ossessivamente legata ad una disciplina che gli ha consentito di superare indenne dieci arresti, due processi e oltre un quarto di secolo di carcere durissimo nell’isola-prigione di Robben Island.
Figlio di Gadla Henry Mphakamyiswa, capo della tribù Thembu, Rolihlahla Dalibhunga nasce il 18 luglio del 1918 nel piccolo villaggio di Qunu, nella regione del Traskei, forse una della più rigogliose del sud-est del paese. Chiamato “Madiba”, titolo onorifico che gli viene attribuito dagli anziani della sua tribù e come tuttora viene chiamato dal suo popolo, Rolihlahla perde il padre quando ha solo 9 anni. Viene mandato a studiare in una scuola presbiteriana. Saranno proprio i religiosi a cambiargli il nome in Nelson Rolihlahla Mandela, nome che manterrà per il resto dei suoi giorni. Come la maggior parte degli uomini di colore, relegati ai margini di una società fondata sul razzismo, crede nell’importanza della scuola e dell’educazione.
E’ convinto che studiando e arricchendosi di quella cultura riservata all’epoca solo ai bianchi avrà qualche possibilità di superare un destino già tracciato per milioni di neri. Supera gli esami, ottiene i suoi diplomi; poi, a 22 anni, giovane e pieno di rabbia, compie una scelta che lo segnerà per il resto della vita ma che lo proietterà verso la più grande impresa della sua esistenza: la lotta di liberazione dal regime dell’apartheid.
Il suo clan decide che per lui è venuto il momento di sposarsi e gli sceglie, come era nella tradizione, anche la moglie. Mandela ci pensa una notte intera ma alla fine preferisce fuggire e quindi rompere con la sua grande e influente famiglia. Con il cugino raggiunge Johannesburg. Continua gli studi, s’iscrive alla facoltà di Giurisprudenza, partecipa alle prime sommosse universitarie. Nel 1942, due anni dopo aver lasciato il suo villaggio, aderisce all’African national congress (Anc). E’ molto attivo, ha delle intuizioni politiche brillanti, suggerisce nuove tattiche di lotta. Si fa notare e viene notato. Con i suoi due amici inseparabili, Walter Sisulu e Oliver Tambo, che lo seguiranno in mille avventure, fonda la Youth league, una lega giovanile vicina alle posizioni dell’Anc.
Nel 1944 sposa la sua prima moglie (ne avrà tre): si chiama Evelyn Ntoko Mase. Resteranno insieme 13 anni. Anni felici e di battaglie comuni. Poi divorziano. Il 1948 è un anno particolare per il Sudafrica. Il partito nazionale afrikaner, partito di destra e razzista formato da soli bianchi nati e cresciuti nel paese, trionfa alle elezioni. Mandela è già rientrato tra le fila dell’Anc: lavora giorno e notte, si distingue ancora nel partito, sale i gradini nelle diverse strutture, raggiunge il vertice dell’Assemblea popolare.
Nel 1955 è stufo di vedere attorno a sé tanta ingiustizia. E’ diventato un avvocato, vuole fare qualcosa per la sua gente. Con l’inseparabile Tambo apre uno studio legale e fornisce, in modo gratuito, l’assistenza alle vittime della repressione del regime bianco. Un anno dopo, il 5 dicembre, viene arrestato assieme ad altri 150 compagni dell’Anc con l’accusa di tradimento. Il processo dura sei anni ma al termine saranno tutti assolti. Nel 1958 sposa Winnie Madikizela dalla quale avrà quattro figli.
Anni contrastanti: di liti violente e di passioni felici, nonostante il regime dell’apartheid lo costringa ad una vita di allarme e di continui arresti. L’Aids, che all’epoca non era stato ancora scoperto, gli porta via tre figli. E’ un durissimo colpo per il futuro padre della patria. Lo segnerà per il resto della vita: fino all’ultimo giorno si batterà per sconfiggere la diffusione dell’Hiv che in Sudafrica si è trasformato in un vero flagello. Ammetterà anche di averlo sottovalutato e di non aver agito con sufficiente energia quando fu in condizioni di farlo. Nel 1960, l’esercito sudafricano reprime con la forza una manifestazione di protesta. I soldati sparano ad altezza d’uomo: 69 persone vengono uccise a Sharpeville.
E’ il momento più cupo nella storia del Sudafrica. L’Anc è messo al bando, Nelson Mandela sceglie la lotta armata. Vive tre anni da clandestino, tra attentati, sommosse, altre rivolte, altri morti. Nel luglio del 1963 è nuovamente arrestato. E’ accusato di tradimento. Il processo dura nove mesi e viene condannato all’ergastolo. Madiba ammetterà gli attentati, ma negherà di aver organizzato l’invasione del Sudafrica da parte di alcuni stati confinanti. Rivendica il ruolo di combattente per la libertà, rifiuta quello di traditore della sua terra. E’ trasferito nell’isola di Robben Island, di fronte a Città del Capo. Ci resterà per 27 anni. Senza mai perdere quella lucidità politica che lo porterà a coronare il grande sogno. Sosterrà i compagni finiti in galera, li aiuterà nei momenti di sconforto, imporrà gli esercizi fisici alla mattina e interi pomeriggi di studi. Chiederà libri, penne e quaderni, darà lezioni di grammatica, di storia, di lingua. Chiuso nella sua cella, con una visita al mese, osservato a vista, spesso provocato, porterà avanti la sua battaglia contro l’apartheid.
Ma sarà il resto del mondo, scosso dall’atteggiamento di quest’uomo fermo nei suoi principi e insieme tollerante nel confronto, a creare le condizioni per la sua liberazione. La solidarietà è immensa. Il Sudafrica è stretto nella morsa delle sanzioni e dell’embargo. Il regime segregazionista del presidente Botha è in affanno. Nelson Mandela prigioniero è una spina nel fianco. Nell’inverno del 1985 gli viene offerta la libertà condizionata. A patto che rinneghi la lotta armata. Mandela rifiuta. Resterà in carcere fino all’11 febbraio del 1990. E’ una data storica, una domenica: l’ormai icona della libertà e della giustizia varca il portone di Robben Island, percorre una lunga strada sterrata bianca, sbarca a Città del Capo, raggiunge il palazzo del Comune e davanti ad un’immensa folla annuncia la fine del regime razzista. Lo fa insieme a Frederick de Klerk, l’ultimo presidente del Sudafrica segregazionista, l’uomo che lo ha fatto liberare. Una scelta maturata nel tempo. Suggerita, sostengono i più informati, dai preziosi consigli della sua nuova compagna.
Davanti alle crisi irreversibile del paese, fu questa donna ad avvertire l’uomo che guidava il Sudafrica: “Sei vuoi essere ricordato nella storia è venuto il momento del grande passo”. De Klerk firma il decreto di scarcerazione e il tempo gli assegna, insieme all’ex prigioniero, il suo posto tra i Grandi: ottengono entrambi, nel 1993, il Premio Nobel per la pace. Dal 1991 al 1994, Nelson Mandela è presidente dell’Anc. Corre per le presidenziali del paese. Le vince con un trionfo. Sarà il primo Capo di Stato sudafricano di colore e nominerà come suo vice proprio Frederick de Klerk. E’ il segno più tangibile di quel processo di riaggregazione e di pacificazione che scandirà la vita politica del nuovo Mandela. Alla cerimonia invita il capo dei suoi carcerieri.
Nel 1996, tra molte polemiche, divorzia da Winnie. Due anni dopo, ormai ottantenne, sposa Graca Machel, vedova di Samora Machel, presidente del Mozambico, morto in un misterioso incidente aereo, suo grande amico durante la lotta all’apartheid. Viaggia nel mondo. Vede ancora i suoi amici di un tempo, i “combattenti in armi”. Castro, Gheddafi. Ha la forza di apparire a concerti oceanici di musica. A Londra. Di ricevere decine di premi e onoreficienze. Da Firenze e a New Delhi dove è l’unico, oltre a Madre Teresa di Calcutta, ad essere insignito di un premio destinato solo ai grandi dell’India. Continua ad accogliere leader mondiali, come Blair e Bush. Per tutti ha una battuta, con tutti ostenta il suo humor che non lo ha mai abbandonato. Decine di paesi gli dedicano parchi e piazze. Il suo nome campeggia in molti angoli, piazze, vie, luoghi anche sconosciuti, del pianeta.
Stanco ma soddisfatto, nel giugno del 2004 pensa che sia arrivato il momento di ritirarsi. Il tempo, il carcere, le infinite battaglie lo hanno logorato. Da lontano, fuori dalla mischia politica che si fa sempre più serrata, media nei contrasti tra le correnti dell’Anc. Vuole finire i suoi giorni nel paese che ha liberato. Ma vuole anche lasciare inalterati i principi che hanno proiettato il Sudafrica verso il progresso e la democrazia. Lo ascoltano tutti e tutti lo rispettano. Non è solo un’icona immortale. E’ un uomo. Conserva la saggezza, l’equilibrio, la disciplina, la tenacia, l’ostinazione di sempre. Sono le armi a cui si aggrappa. Che vuole trasferire al suo popolo, oggi finalmente libero. Di autodeterminarsi. Di scegliere. Senza più distinzioni di razze, di religione. Ma sa anche che la strada è ancora lunga. Ha combattuto per oltre 90 anni. E’ molto debole, il fisico lo sta abbandonando. Ha nostalgia del suo villaggio, delle sue origini, del suo clan. Spiega: “Voglio dedicarmi alla mia famiglia”. Lo farà con l’energia e la lucidità di sempre. Sveglia alle 4,30. Ginnastica per un’ora. Lettura dei giornali. Poi il rito della colazione: porridge, latte e cornflakes. Come sempre. Ogni giorno, da un secolo.
Davanti al giardino in fiore che avvolge la sua casa, sempre curata, sempre ridipinta, di Hougton, quartiere bene di Johannesburg, trascorre le sue ultime giornate. Circondato dai nipoti, dagli amici, dai giovani che ogni mattina risalgono il viale alberato della 12a street per ascoltare la storia di “Madiba”. Una storia unica. Una storia di libertà e di giustizia.
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