Orchestra dell’Accademia S.Cecilia, da Mascagni a Brahms emozioni e virtuosismi del violinista Kavakos per la direzione di Sir Pappano
(Di Sergio Prodigo).Un evento musicale può talvolta rivestire carattere di unicità o di irripetibilità, specie se vi concorrono tre concomitanti fattori, ossia gli alti valori e i contenuti artistici delle opere in programma, la loro magistrale interpretazione e talune particolari ricorrenze: così è avvenuto nel concerto di sabato 7 dicembre all’Auditorium del Parco della Musica. L’Orchestra e il Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, Sir Antonio Pappano e il violinista Leonidas Kavakos si sono espressi ai massimi livelli esecutivi in tre diversi momenti storico-estetici: nella prima parte un brano sinfonico di Pietro Mascagni, la Visione lirica (per i centocinquant’anni dalla nascita del compositore toscano), e il Magnificat di Goffredo Petrassi (a dieci anni dalla sua scomparsa); nella seconda parte il sublime Concerto in re maggiore per violino e orchestra op. 77 di Johannes Brahms.
In apertura è stato lo stesso Pappano a rivolgersi al pubblico ceciliano e con motti chiari ed esplicativi ha illustrato e commentato l’importanza dei due compositori italiani nel contesto storico del primo e del secondo Novecento, rappresentando brevemente ma esaustivamente i contenuti dei due lavori sinfonici e sinfonico-corali, chiosandone la diversa natura estetica e compositiva e rammentandone anche, in certo qual senso, l’incidenza rievocativa o celebrativa.
Certamente, il brano di Mascagni, eseguito per la prima volta nel gennaio del 1923 (all’Augusteo di Roma con lo stesso compositore alla guida dell’Orchestra della “Regia” Accademia di Santa Cecilia) non cela intenti descrittivi o rappresentativi, fedeli alla stessa titolazione, Guardando la Santa Teresa del Bernini, e, pur in un esiguo spazio temporale, si riallaccia allo spirito degli ultimi poemi lisztiani (come Hunnenschlacht e Von der Wiege bis zum Grabe), ispirati alle omonime opere pittoriche di Kaulbach e Zichy.
Nello specifico, il capolavoro scultorio di colui che, sotto il pontificato di Urbano VIII, venne definito “il custode dell’orto delle Esperidi”, quel Gian Lorenzo Bernini che nella Roma barocca fu il massimo referente delle commissioni artistiche da parte di papi, cardinali e nobili magnati, “L’estasi di Santa Teresa” (sita nella cappella a sinistra dell’altare in Santa Maria della Vittoria), si presta da secoli, dal lontano 1652, a un’emozionale visione estatica in virtù dell’unificazione della spazialità architettonica, completata dalla decorazione pittorica della volta e integrata dai ritratti dei membri della “committente” famiglia Cornero. La simbiosi delle tre componenti artistiche, che dona teatralità dinamica all’opera, sembra riflettersi nella trasposizione musicale di Mascagni, priva di declamatoria retorica espressiva, ma attenta a interpretarne il misticismo senza infingimenti e senza tema d’apparire in taluni momenti tributaria di tematiche franckiane o wagneriane e di non rilevare o cogliere i coevi linguaggi armonici più avanzati.
Emozionante e intensa l’interpretazione che Pappano ha saputo offrirne: al termine della breve esecuzione, annunciato come un “dono”, l’Intermezzo dalla Cavalleria rusticana ha sia coronato l’omaggio al compositore sia elargito agli astanti il suono di una compagine orchestrale che, sotto la sua direzione, “suona” sempre come un solo strumento, polivoco e multitimbrico.
Tale sensazione si è avvertita maggiormente nella susseguente esecuzione del Magnificat di Goffredo Petrassi, il maggiore compositore italiano del Novecento. Occorre considerare o premettere, tuttavia, soprattutto nello spirito di un ricordo doveroso e non sopito nei dieci anni dalla sua scomparsa, come l’ampia sua produzione si sia spalmata lungo tutto l’arco dello scorso secolo in un percorso stilistico che è partito dalla tradizione italiana (la Partita per orchestra e il Lamento d’Arianna per voce e pianoforte) e dalle correnti neoclassiche (l’Ouverture da concerto per orchestra e il Concerto per pianoforte e orchestra), fino a convergere in una sorta di ritorno alle forme barocche (il Salmo IX e, appunto, il Magnificat per soprano, coro e orchestra); va anche rammentato come nel periodo oscuro della seconda guerra mondiale e del dopoguerra si collochino i lavori più meditati e più legati al sentimento religioso, arricchiti da una timbricità particolare (il Coro di morti – su testo tratto dalle Operette morali di Leopardi –, i balletti La follia di Orlando e Ritratto di don Chisciotte, le opere in un atto Il Cordovano e Morte dell’aria, la cantata Noche oscura per coro e orchestra, e i Nonsense per coro a cappella). Dagli anni cinquanta agli anni settanta prevale una specifica tendenza ai generi strumentale e cameristico con un’evoluzione del linguaggio, che proviene dall’assimilazione della lezione bartókiana, del post-serialismo e dei contenuti tecnici della neoavanguardia (gli otto Concerti per orchestra, il Quartetto per archi, la Serenata, il Trio per archi, il Tre per sette e l’Ottetto per ottoni) e perviene alle pagine più intense della sua poetica musicale (Béatitudes: testimonianza per Martin Luther King e il Gran Septuor) e anche a quelle più significative dell’ultimo ventennio (il Poema per archi e trombe, la Sestina d’autunno per 6 strumenti, i Frammenti per orchestra, le Laudes creaturarum per voce recitante e 6 strumenti e i Tre cori sacri a cappella).
Non breve ma necessaria la reminiscenza del percorso artistico di un “Grande” della musica, anche per la felice riproposizione di un’opera sinfonico-corale che vide la sua prima esecuzione nel 1941 al Teatro Adriano con Bernardino Molinari alla guida dell’orchestra e del coro dell’Accademia: una struttura complessa, quella del Magnificat, compenetrata certamente nella lectio neoclassica stravinskijana ma collegata geneticamente alla grande tradizione polifonica italiana, non esente da barocchismi pur filtrati e non disgiunti da ornamentazioni di ampie volute melodiche, esaltate nei tratti solistici del soprano, volti sovente a trasfigurare nel testo evangelico urti dissonanti e contrasti timbrici in ambito armonico variegato, reiteratamente ai limiti della tonalità allargata.
Drammatica ed espressiva la lettura offerta da Pappano della complessa partitura: se n’è intesa la profonda assimilazione, trasmessa vieppiù dall’organicità timbrica del folto apparato strumentale, simbioticamente amalgamato sia con la massa corale (sempre egregiamente “preparata” da Ciro Visco) sia con la straordinaria vocalità del soprano Maria Chiara Chizzoni.
Nella seconda parte del concerto si attendevano Brahms e Kavakos: tale attesa s’è concretata in una memorabile esecuzione del Concerto op. 77, ai limiti di quella perfezione interpretativa forse vagheggiata dal compositore amburghese nell’atto creativo di uno dei massimi capolavori nel genere sinfonico-solistico, che s’avvale tematicamente di fraseologie incisive e, al tempo stesso, liricamente espressive e costantemente corredate da ricchi sostrati armonici. All’estrema cantabilità, sovente di tipo accordale, e alla nettezza ritmica delle componenti motiviche, disseminate nella spazialità dilatata del primo movimento (Allegro non troppo), si giustappone lo spirito arcadico delle linee melodiche che pervadono il secondo (Adagio), sin dalla prima inventio, espressa dall’evocativa timbricità dell’oboe, alla stregua di una rimembranza mozartiana, e innestata nell’impasto armonico degli altri legni e dei corni; di seguito, il violino può mutarne la natura, dispiegando scalarità, arpeggi e locuzioni figurate di ampio respiro anche attraverso reiterate fasi modulative. Diverso per indole e ideazione il finale (Allegro giocoso, ma non troppo vivace): una giocosa tematicità, appunto, non aliena da estri tzigani, ne caratterizza anche i tratti più marcatamente virtuosistici nell’incessante gioco dialettico fra il solista e la massa orchestrale.
Certamente tutto quanto attiene alla più complessa tecnica violinistica è ampiamente presente nell’intero Concerto, sia nell’originale concezione brahmsiana sia nelle “benevoli” chiose e nelle ardue cadenze di Joseph Joachim, il suo primo interprete. Quel che si è avvertito nell’esecuzione di Leonidas Kavakos va al di là di ogni possibile giudizio elogiativo: unica, perfetta e ineguagliabile, ma le aggettivazioni potrebbero succedersi con ben altra magniloquenza a commento dell’irripetibile performance, se non si fosse poi assistiti alle interminabili ovazioni di un pubblico entusiasta, che ha a lungo acclamato il solista, il direttore e l’orchestra.
Tanto entusiasmo è stato alfine ripagato da uno straordinario bis concesso dal violinista greco, la Gavotte en Rondeau dalla terza Partita in mi maggiore di Bach, eseguita con impeccabile maestria e con perfetta aderenza ai suoi specifici contenuti stilistici.
Social