Orchestra Accademia S.Cecilia, debutto romano per il direttore Cornelius Meister. Grande performance del soprano Chizzoni
(di Sergio Prodigo). Il secondo appuntamento del 2014 all’Auditorium del Parco della Musica (sabato 11, con repliche nei tre giorni successivi) con la Stagione sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia si è giovato di un variegato e avvincente programma: nella prima parte l’Ouverture dal Der Freischütz di Carl Maria von Weber e il Concerto n. 1 per corno e orchestra di Richard Strauss, nella seconda i Carmina burana di Carl Orff per soli, coro, coro di voci bianche e orchestra.
Se Der Freischütz rappresenta, pur nella struttura del Singspiel, il prototipo o, meglio, l’embrione antesignano dell’opera romantica tedesca, sia per le insite dicotomie tematiche sia per lo spirito faustiano, stile, struttura e forma ne collocano ambitus e habitus nel contesto classicista. Di tal foggia, infatti, si rivela la sua Ouverture, composta da Weber nel 1821, dopo la laboriosa e annosa stesura dell’opera medesima: vi convergono elementi del beethovenismo coevo, ravvisabili nel contrasto dialettico dei due temi (il primo – in minore – drammatico e intenso, il secondo – in maggiore – solare e infine trionfante) e nello schematismo compositivo (l’Adagio introduttivo e il conseguente tripartitismo del Molto vivace s’adeguano ai canoni di una consolidata tradizione formale).
Esemplare s’è rivelata l’esecuzione dell’orchestra ceciliana, guidata da un direttore tedesco, Cornelius Meister, giovane ma già onusto di podi prestigiosi e al suo debutto romano: particolarmente efficaci gli interventi dei fiati, specie nei reiterati passaggi della quadriglia dei corni e nelle fraseologie solistiche del primo clarinetto, e di estrema precisione e compattezza d’insieme i tematismi e le figurazioni degli archi.
Di seguito, il giovanile Concerto di Strauss, composto nel 1883, ha evidenziato le straordinarie qualità interpretative del primo corno dell’orchestra, Alessio Allegrini, un solista e virtuoso di alto livello, in grado di esaltare al massimo grado la particolare timbricità di uno strumento caro ai romantici, da Schumann fino a Brahms; caro anche al diciottenne Richard, che omaggiava il padre Franz (primo corno presso la regia orchestra di Monaco di Baviera), cimentandosi con una forma apparentemente classica ma venata di richiami ciclici e di complicanze armoniche e arricchita da un già maturo assetto funzionale del connettivo orchestrale. Particolare si rivela, dopo il movimento iniziale (Allegro), non alieno da squilli, richiami e scansioni tipizzanti, seppur interconnessi a plastiche melodicità ricorrenti, il susseguente Andante che vivifica i toni elegiaci dello strumento in grazia di un apparato motivico di estrema cantabilità; il Rondò finale è, di contro, non avulso da sfumature manieriste, pur se gradevole per un inesausto dinamismo tematico.
Nella seconda parte del concerto l’attesa esecuzione dei Carmina burana, la cantata scenica composta da Orff tra il 1935 e il 1936 su testi tratti dall’omonimo corpus di componimenti poetici medievali, contenuti in un manoscritto del XIII secolo, il Codex Latinus Monacensis o Codex buranus (tale codice miniato proveniva dal convento di Benediktbeuern in Baviera, ossia l’antica Bura Sancti Benedicti). Il compositore bavarese selezionò dalla raccolta 24 poemi, con testi in latino tardo-medievale (a parte due brani in alto tedesco antico e in provenzale), articolando l’opera in un Prologo (l’invocazione alla Dea Fortuna), tre parti distinte dedicate ai temi (simbolici) della primavera pagana (Primo vere), della vita sregolata dei clerici vagantes (In taberna) e dell’amore sensuale (Cours d’amours), e la ripresa finale dello stesso Prologo, preceduta da una sorta di inno a Venere (Blanziflor et Helena).
Ad una sommaria analisi l’opera rivela una notevole complessità e singolarità sotto diverse angolazioni: una trama non ben definita se non con interpretazioni allegoriche, una strumentazione ricca ma con costanti divisioni a blocchi, un dispiegamento abnorme di strumenti a percussione e l’inserimento di due pianoforti nella compagine orchestrale, delle scelte armoniche essenzialmente statiche e non funzionali con sovrabbondanza di quinte, di triadi e di accordi non tensivi o secondari di settima, di nona e di undicesima, l’assenza di processi modulativi, le costanti e ostinate reiterazioni ritmiche, la predilezione per i registri acuti delle voci e, infine, l’uso sistematico di una modalità non rivisitata filologicamente ma abilmente “reinventata”.
Eppure, i Carmina affascinano e incantano: non s’avvertono se non a tratti la staticità dello stesso ordito compositivo e la sovrabbondanza sonora, pur se la predisposizione al medesimo ascolto è inevitabilmente condizionata dall’improprio utilizzo che certa cinematografia (ma anche certa pubblicità) ne ha operato, specie del Prologo, sovente impiegato per truci rappresentazioni di improbabili saghe nordiche. Di là da tale ineluttabile considerazione, l’esecuzione da parte dei solisti, dell’orchestra e delle masse corali è risultata ineccepibile sotto ogni aspetto e del tutto conforme allo spirito della complessa partitura s’è rivelata l’interpretazione di Cornelius Meister, maggior-mente a suo agio nel sinfonismo tedesco del Novecento storico.
Calorosi e prolungati gli applausi finali del folto pubblico al direttore, ai solisti (il soprano Maria Chiara Chizzoni, il tenore Marco Santarelli e il baritono Eugene Villanueva), al coro, alle voci bianche e all’orchestra: una doverosa menzione e una incondizionata lode vanno riservate e tributate, tuttavia, alla magistrale interpretazione fornita dalla Chizzoni (chiamata all’ultimo momento a sostituire il soprano Rosa Feola) e all’ottimo ed encomiabile lavoro svolto da Ciro Visco nella perfetta preparazione dei cori.
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