Orchestra Accademia S. Cecilia, applausi ed emozioni per la performance della pianista cinese Yuia Wang
(di Sergio Prodigo). C’era molta attesa per l’esibizione della pianista cinese Yuia Wang, sabato scorso all’Auditorium del Parco della Musica, e per la sua interpretazione del secondo Concerto per pianoforte e orchestra di Prokof’ev: un’attesa premiata da una straordinaria perfomance e dalle intense emozioni e forti sensazioni che l’esecuzione ha suscitato per il virtuosismo, la vigoria e la padronanza dello strumento palesate dalla giovane ed esile concertista, vero “mostro” di bravura ma anche raffinata interprete di un pianismo ormai storico, se non storicizzato.
In apertura, tuttavia, un doveroso omaggio ai prodromi del sinfonismo classico, tributato da Sir Antonio Pappano e dall’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia con una ineccepibile esecuzione della Sinfonia n. 59 in la maggiore di Franz Joseph Haydn: composta fra il 1766 e il 1768, la Feuersymphonie (la titolazione rivela una probabile derivazione da musiche di scena per una commedia, ispirata a fuochi o a incendi e rappresentata presso la corte degli Esterházy), pur avvalendosi d’un impianto strumentale di reminiscenza barocca (in virtù dell’impiego del fagotto e del cembalo, deputati alla realizzazione del basso continuo), si struttura secondo i canoni del nascente classicismo sia nella parziale adozione dei princìpi bitematici sia nella ripartizione dei quattro movimenti costitutivi. Spigliato e omogeno in un tematismo di incisiva connotazione ritmica, il primo tempo (Presto) s’avvale di una sorta di timbricità contrastiva, espressa dal connubio dialettico fra i quattro fiati (due oboi e due corni) e gli archi. Nel secondo (Andante o più tosto Allegretto), di contro, il bitematismo sembra concretarsi con maggiore convincimento ideativo, pur se le due espressioni motiviche si alternano senza significativi episodi di transizione e divergono precipuamente solo nel modo; l’insieme tissutale degli archi vi conferisce una tenue e morbida pastosità, timbricamente corroborata solo nella riesposizione dal limitato apporto dei quattro fiati. Il dialogo timbrico, incisivo e vigoroso nelle segmentazioni tematiche, si ripropone sia nel terzo movimento (Minuetto), pur se assente nel soffuso e misterioso Trio, affidato ai soli archi, sia nel Finale (Allegro assai), introdotto da evocativi squilli dei corni e caratteristici cicalecci degli oboi, frequentemente enunciati con topici raddoppi di terza; di seguito s’estendono financo alla prima idea, condivisa con i violini, ma l’intrico dialogico prosegue tanto nella breve episodicità quanto nel succedaneo tematismo alla dominante. La forma sonatistica può, infine, definirsi mercé un limitato svolgimento e una razionale ripresa di elementi che ne sostanziano, specie nella breve caudalità, il carattere campestre e venatorio.
Dalla rigorosa lettura del gioiello haydniano al massiccio sinfonismo di Prokof’ev: un salto quasi “traumatico”, dalla leggiadria alla drammaticità espressiva, ossia dalla forma in sé e illuministicamente razionale alla eterogeneità strutturale e, in un certo qual modo, dissacrante ed eterodossa. Composto a vent’anni, nel 1912-13 (ma riscritto integralmente nel 1923), il Concerto n. 2 in sol minore op. 16 solo apparentemente ricalca i similari modelli ottocenteschi (da Schumann a Brahms e Čajkovskij), almeno nei rapporti mai paritari fra lo strumento solista e l’orchestra, poiché l’ordito di idee, di sequenze accordali, di ampie scalarità e di arpeggi, di complesse combinazioni armoniche e di virtuosismi sovente ai limiti dell’eseguibilità conferisce un ruolo primario al pianoforte nel particolare contesto che (purtroppo) in altri tempi accomunava il compositore e l’interprete. Del resto, fu proprio il giovane Prokof’ev a proporne la prima esecuzione a San Pietroburgo, ma certamente memorabile dové essere la sua interpretazione a Roma nel 1915, proprio all’Accademia di Santa Cecilia con la direzione di Bernardino Molinari; il secondo Concerto, tuttavia, non s’è mai stabilmente insediato nei repertori concertistici e nelle programmazioni, prevaricato in tal senso dal terzo, forse a causa della costante drammatizzazione del linguaggio e della conseguente assenza di tematismi pregnanti e riconoscibili. È pur vero che il primo movimento (Andantino – Allegretto – Andantino) non disdegna di avvalersi, almeno nella parte iniziale, di una sofferta cantabilità, anche dialogica in taluni momenti fra il pianoforte e una massa orchestrale che tosto soggiace o soccombe alla crescente ingerenza sonora e timbrica del pianoforte, almeno fino alla celebre cadenza (la più complessa mai concepita nella specifica tradizione letteraria): “titanica” la sua possibile definizione, certamente conforme e rispondente a quanto di più complesso si possa immaginare nell’ambito degli eccessi virtuosistici, ma particolare si rivela anche una sorta di parossismo espressivo, che non si conclude con la percussione di finali accordi dissonanti ma si estende alla riemersione dell’orchestra, fortemente coinvolta, specie nelle alternanze arpeggiate dei legni e nel cupo pathos evocato. Tale compartecipazione emotiva s’avverte anche nel breve Scherzo (Vivace), una sorta di moto perpetuo di velocissime ottave a due parti del pianoforte, che commentano e decorano i disegni atematici delle sezioni strumentali nella sembianza o reminiscenza d’uno stile toccatistico. Dopo la quasi funerea marcia del susseguente Intermezzo (Allegro moderato), non alieno anche da una tragicità declamatoria e dal conseguente impiego di supporti armonici dissonanti, il Finale (Allegro tempestoso) si riappropria d’ogni possibile tecnicismo pianistico che non muta, anzi esalta e vivifica i prefissati intenti evocativi del compositore, forse legati ad un fatale accadimento (il suicidio del compagno di studi Schmidthof): il tutto si sublima nella parte terminale del movimento sia per la tumultuosa cadenza sia per gli aspri urti accordali e il vorticoso succedersi di multiformi figurazioni scalari.
Se si rivela agevole descrivere, pur con tratti sommari, una complessa partitura, perfettamente tradotta da Pappano e superbamente eseguita dall’orchestra, vengono meno aggettivazioni ed espressioni atte a rappresentare o illustrare la magistrale interpretazione fornita da Yuia Wang: forse “titanica”, come si è definita la prima cadenza del Concerto, di là dalla perfezione e dalla padronanza dello strumento, palesate nei più complicati passaggi ossia in un virtuosismo estremo non disgiunto, tuttavia, da quella rara musicalità, che ne rende naturale l’espressione ma anche logica la componente strutturale. Scosso e soggiogato da forti sensazioni e coinvolto emotivamente dall’esecuzione, l’uditorio s’è prodotto in prolungate ovazioni e acclamazioni, forse sperando in un bis che, saggiamente, la giovane concertista non ha concesso, perché perdurassero negli astanti quelle irripetibili emozioni già dispensate.
Nella seconda parte del concerto una Sinfonia di Brahms: se fosse stata eseguita la Prima (peraltro già diretta da Pappano nello scorso dicembre), non si sarebbero certamente stemperati quei turbamenti e quelle tensioni emotive che la musica di Prokof’ev aveva destato e suscitato. Invece, la Seconda (in re maggiore op. 73) è ricca di cantabilità, di tematismi ininterrotti di ampio respiro, privi di pathos, a volte quasi pastorali o idillici; i quattro movimenti (Allegro non troppo, Adagio non troppo, Allegretto grazioso e Allegro con spirito) si snodano con estrema linearità, sempre sorretti dal principio brahmsiano della variazione di sviluppo, alternando momenti di trasognata melodicità a ritmi di danze campestri, reiterate gemmazioni motiviche a nobili e mobili intrecci polivoci sino alla gioiosa esplosione dei tratti finali.
Appassionata e intensa l’interpretazione del capolavoro sinfonico da parte di Antonio Pappano, sempre inappuntabile nell’esegesi del repertorio tardoromantico, ma particolarmente felice nel rappresentarne, attraverso il colore orchestrale e la minuziosa opera di concertazione, l’originario spirito compositivo.
Totale il plauso del pubblico ceciliano, trionfale anche la trasferta al Teatro Petruzzelli di Bari nella serata di domenica, ma le repliche del lunedì e del martedì certamente contrassegnate da tristezza, mestizia e sconforto per la scomparsa del Maestro e Senatore a vita Claudio Abbado, gloria nazionale e fra i maggiori direttori a livello internazionale che la Grande Musica abbia mai avuto.
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