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Auditorium, in scena leggenda e musica: Lorin Maazel alla direzione dell’orchestra dell’Accademia S.Cecilia

Auditorium, in scena leggenda e musica: Lorin Maazel alla direzione dell’orchestra dell’Accademia S.Cecilia

(di Sergio Prodigo). In musica i doni dell’età avanzata si manifestano in pregi interpretativi di rara intensità e di profonda suggestione: così s’è inteso quanto traeva da una prodigiosa memoria Lorin Maazel, lo scorso 25 gennaio all’Auditorium del Parco della Musica, dispensandolo al pubblico commosso, sin dal primo attacco della Sinfonia in re minore di Cesar Franck. Con quel tema ancestrale, che subito s’impone e afferra le redini del suo costante divenire, è principiata una narrazione musicale affidata all’orchestra ceciliana, sempre in grado di riprodurre e trasmutare gesti e intenti direttoriali d’ogni natura e d’ogni concezione, concretando il linguaggio nella compatta timbricità strumentale.

Quel tema, appunto, ossia una cellula germinale di soli tre suoni, compressi nella emblematica intervallazione di terza aumentata, che rinvia ad altri similari incisi lisztiani e beethoveniani, pur se la sua prima formulazione si deve a Bach: in Franck assume la sembianza d’uno slancio mistico, teso a replicarsi nell’alternanza dicotomica degli andamenti (LentoAllegro non troppo), assurgendo poi a dignità tematica. Un costante avvicendamento episodico, non alieno da cromatismi di reminiscenza wagneriana, conduce gradualmente ad una conseguente perorazione motivica di rara espressività e, di seguito, l’intero corso di un primo movimento, affrancato dall’abituale tripartitismo, s’avvale di altri tematismi derivati e ciclicamente protesi a replicarsi anche negli altri due tempi del contesto sinfonico. L’Allegretto centrale, tuttavia, sembra giovarsi di una maggiore autonomia espressiva, assumendo, alternando e assemblando i tratti formali dei tradizionali movimenti interni del sinfonismo classico e romantico. La tenue melodia iniziale, affidata alla nostalgica timbricità del corno inglese, s’evolve gradualmente verso una maggiore e difforme corposità tematica, ma poi s’innestano altri elementi e altre figurazioni ritmicamente più incisive, quasi gli echi d’uno scherzo virtuale: conseguenti gli sviluppi, non affrancati da un lirismo ineluttabile seppur suggestivo. Il Finale (Allegro non troppo) sembra assumersi inizialmente solo l’onere di ricapitolare ogni espressione tematica già intesa, ma esprime anche una derivazione tematica di estrema pregnanza e di marcata ed eloquente rilevanza; dipoi, una multiforme e prolungata elaborazione conduce alla pomposa e luminosa riproposizione dei temi basilari della Sinfonia.

Un’opera certamente complessa, l’ultimo lavoro sinfonico del compositore belga: scritto nel 1889, ai limiti estremi dell’estetica tardoromantica, pur avvalendosi di una strumentazione classica, sovente di colore organistico, non tradisce un sostanziale apparentamento con lo spirito del “poema sinfonico” (Franck ne compose di eccellenti, come Le Chausser maudit, Les Éolides e Rédemption). Difficile e ardua, pertanto, si rivela una sua coerenza interpretativa, tale da restituirgli pienamente l’insita logica musicale: Maazel l’ha fatto con estrema naturalezza, assimilandone il linguaggio e disvelandone i contenuti attraverso una approfondita lettura e una inesausta memoria storica, coadiuvato dalla flessibilità e dalle notevoli capacità performative espresse dell’Orchestra di Santa Cecilia.

Nel particolare ambito del genere citato la proposizione, nella seconda parte del concerto, di due poemi sinfonici di Ottorino Respighi, Fontane di Roma e Pini di Roma, s’è rivelata felice nella scelta ma anche del tutto consequenziale. Certamente diversi sono i contenuti, poiché vi prevalgono descrittivismi, onomatopee, citazioni popolari miste a echi di lontane modalità, effetti strumentali anche parossistici, incombenze percussive e coacervi stilistici. Tuttavia, la continuità e l’evoluzione di una forma, coltivata con altri intenti dagli epigoni post-romantici delle scuole nazionali, si arricchiscono di altri elementi nel sinfonismo del massimo esponente della “generazione dell’Ottanta”, del tutto autonomi e non apparentati se non larvatamente alle concezioni straussiane. Nelle opere del compositore romano (d’adozione) convergono e s’innestano altri stilemi, mutuati anche da un diverso retroterra culturale, intriso di arte e letteratura (dalla tradizione umanistica e rinascimentale a quella barocca), e delineati in maniera variegata e multiforme nell’ampia sua produzione (cameristica, lirica e sinfonica).

I poemi del trittico romano (oltre i due citati ed eseguiti va necessariamente menzionato anche Feste romane) sono concepiti in forma quadripartita e senza soluzione di continuità: i quadri (appunto) rappresentati si succedono con logica differenziazione tematica e strutturale e si giovano di una sorta di interconnessione discorsiva, non aliena da cesure narrative, ma tale da conferirvi unitarietà compositiva. Fontane di Roma, scritto nel 1916, pur ispirato a particolari opere scultorie (la fontana di Valle Giulia all’alba, la fontana del Tritone al mattino, la fontana di Trevi al meriggio e la fontana di Villa Medici al tramonto) descrive ed evoca – come evidenziava lo stesso autore nei suoi commenti esplicativi – “sensazioni e visioni… considerate nell’ora in cui il loro carattere è più in armonia col paesaggio circostante”. Pertanto, dalle iniziali atmosfere pastorali si transita a squilli e trilli festosi, poi a trionfali fanfare di ottoni e, infine, alle sommesse melodie crepuscolari: il tessuto musicale s’adegua alle evocazioni in una scrittura chiara e lineare, non scevra da talune forzature ma coerente agli intenti programmatici.

Tali intenti si evidenziano maggiormente nei Pini di Roma, composto nel 1924: il descrittivismo prevale, poiché si susseguono scene rappresentate all’ombra dei secolari arbusti, dai giochi di fanciulli e dagli echi di antiche filastrocche (I pini di Villa Borghese) alle funeree rimembranze di vetuste modalità (I pini presso una catacomba), dal canto lunare dell’usignolo e dai fremiti dell’aria serotina (I pini del Gianicolo) alla proiezione finale delle passate glorie romane con il lento e trionfale incedere di eserciti vittoriosi in marcia (I pini della via Appia). Musicalmente più complesso e articolato, il poema sinfonico conclude la sua proteiforme sequenza scenica con la spettacolarità di effetti timbrici incessanti e incalzanti, rivelando vieppiù la maestria di un’abile orchestrazione, tratto essenziale e determinante del sinfonismo di Respighi.

Straordinaria ed esaltante l’esecuzione offerta dall’ampia compagine orchestrale, ma mancherebbero degne aggettivazioni per commentare l’interpretazione di Maazel, a meno di non riannodare l’iniziale considerazione espressa e considerare tutto quanto si è inteso come un “dono” musicale: le ovazioni e le prolungate acclamazioni tributate dal folto pubblico ne hanno costituito la naturale riprova.