Matteo, una sfida ad alto rischio dentro e fuori al Palazzo. Ma chi vuole il cambiamento?
(di Carlo Lazzari).
Il “vangelo” secondo Matteo, come era prevedibile, ha diviso il campo fra detrattori insofferenti e osservatori entusiasti. Era prevedibile vista la forza d’urto con cui Renzi ha travolto regole e schemi politici. Al Senato, oltre ad aver volontariamente ignorato la prassi ridondante del tributo alla Camera Alta con un intervento istituzionale (nessun cenno al capo dello stato, nessun volo ideologico, nessuna citazione di maniera dei padri della Costituzione anzi ha evocato la Cinquetti piuttosto che Einaudi) si è infilato la mano in tasca e ha parlato a braccio per 70 minuti. Non era mai successo che mentre un neo premier cerca la fiducia dai senatori, allo stesso tempo li sfida ricordandogli che quella sarà l’ultima volta che gli sarà concesso di farlo. Matteo non ha cercato consensi facili e applausi di maniera. Poteva benissimo esibire un bel discorso scritto dal suo staff con tutti i passaggi eloquenti che avrebbero soddisfatto i palati “raffinati” alla Sartori, custodi della retorica politica che permea la preziosa aula di legno a emiciclo. Il premier, hanno scritto in molti, ha baipassato i senatori per parlare agli italiani, al popolo. Ha raccontato la sua visione del cambiamento partendo dalla scuola, l’istruzione. Un passaggio che ha richiamato alla mente le tre emergenze di Tony Blair al suo esordio a Downing Street: “Education, education, education”. Ma Renzi ha parlato da sindaco non da premier, hanno chiosato altri commentatori evidenziando la sua visione campanilistica della politica. Come se avesse una giunta intorno a se e non un consesso di senatori. Per Scalfari, Renzi guida un governo “pop” nella accezione di vuota modernità e frivolezza. Come dire poco adatto alle contingenze drammatiche del Paese. Il tempo può dire quanto tutte queste letture del fenomeno Renzi (di certo il primo premier post-moderno nell’aver tagliato con tradizione e prassi consolidate), siano state accurate e giustificate. La vera sfida che sta lanciando il primo sindaco d’Italia al cambiamento, è la stessa nostra sfida. La sua non retorica, la dialettica da strada di chi parla ai cittadini scavalcando gli scanni di raso rosso dei senatori, ha l’ambizione di porsi fuori dal palazzo, dai simbolismi anche linguistici della Casta. Renzi ha molto da farsi perdonare nel metodo dell’assalto al Palazzo, ma se la sua fretta e la sua via nuova alle riforme potranno dare i risultati sperati nel portare fuori il paese dalla tragica emergenza economica, dalla palude di ingiustizia sociale, furbizie e privilegi, sarà emendata la sua “ambizione sfrenata” . Certo una visione miracolistica del cambiamento suona profondamente ingenua. Se a ogni tentativo di innovazione, dalle liberalizzazioni delle professioni allo scardinamento della burocrazia, ci opporremo con ognuno il propio particolare tornaconto, la “rivoluzione pop” di Renzi naufragherà ancor prima di trovare le coperture economiche che tutti ora invocano per dare un peso ai suoi “sogni”. Un film già visto: ricordate l’onesto ministro Bersani che nel governo Prodi nel 2006 venne travolto da notai, farmacisti, tassisti, giornalai. Tutti in guerra contro le liberalizzazioni e il cambiamento. E tutti ben rappresentati in Parlamento. Un primo accenno lo hanno già dato oggi i sindacati degli insegnanti appena è girata la voce del ministro Giannini di riportare il merito e alzare i compensi secondo impegni e risultati, togliendo gli scatti di anzianità come sistema di progressione automatica per tutti. Pronti alle barricate. Ecco, se così sarà dovremo con molta tristezza piegarci al cinico commento di Giolitti sul Paese: governare gli italiani non è che sia impossibile, è inutile.
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