Auditorium, la Messa in Si minore di Bach esaltata dalla magistrale direzione di Pappano e l’orchestra dell’Accademia S.Cecilia
(di Sergio Prodigo). Bach e Pappano, un binomio particolare e straordinario, che già s’ebbe modo di intendere e apprezzare nella scorsa stagione per la memorabile esecuzione della Matthäus-Passion: la particolarità e la straordinarietà si palesano in una lectio bachiana, aliena da filologici eccessi ma restituita all’autenticità della struttura musicale, che si è disvelata nei suoi significanti più logici e musicalmente più conformi proprio nell’interpretazione della grandiosa Messa in si minore per soli, coro e orchestra, magistralmente eseguita all’Auditorium del Parco della Musica nei tre rituali concerti del 22, 24 e 25 febbraio.
Opera complessa la Hohe Messe BWV 232, come venne “intitolata” nella sua prima edizione a stampa del 1845 in quel felice periodo “romantico” che consacrava la rinascenza bachiana, grazie all’amorevole e devota opera di Mendelssohn: già intuita o considerata come sommo capolavoro, agli inizi del secolo, da Carl Zelter (prolifico autore di Lieder, amico e consulente musicale di Goethe), che per primo interpretò il repertorio sinfonico-corale del genio di Eisenach, la Messa mostra e rivela una complessa elaborazione compositiva, di là dall’unitarietà di una concezione “romantica” dell’opera d’arte. In effetti, i ventiquattro brani (o venticinque, ma il finale Dona nobis pacem è musicalmente simile al Gratias agimus), che costituiscono l’ossatura delle cinque parti dell’Ordinarium (Kyrie, Gloria, Credo, Sanctus e Agnus Dei), vennero concepiti in stadi diversi a livello stilistico e compositivo, attraverso un lasso temporale di almeno cinque lustri, poi raggruppati e assemblati negli anni 1748-49 in quattro sezioni (in virtù dell’accorpamento del Kyrie e del Gloria), quasi Bach intendesse, anche mercé la pratica della parodia (con autocitazioni e trascrizioni da opere pregresse) istituire ed elaborare una sorta di summa formale della musica vocale, dalla cantata da camera (nelle arie) e dalla tradizione mottettistica alla polifonia di stile sia fiammingo sia veneziano (nelle parti corali).
Senza entrare nell’analisi particolareggiata della sequenza dei sedici componimenti corali, delle sei arie e dei tre duetti, vanno degnamente chiosate la lunga e complessa fuga a 5 del Kyrie (anche per la meditata semplicità del soggetto), la brillantezza “brandeburghese” dei brani corali del Gloria, l’intensa aria del Qui sedes per contralto, (sempre dal Gloria, dominato dal timbro dell’oboe d’amore e forse – ma impropriamente a livello musicale – di discendenza o derivazione dall’analogo modello vivaldiano), la simmetria simbolica e la dimensione architettonica delle nove sezioni del Credo (o Symbolum Nicenum, in base all’ortodossia cristiana sancita nel Concilio di Nicea), dall’iniziale arcaismo al cromatismo del drammatico Crucifixus (tra l’altro, tratto dalla cantata Weinen, Klagen, Sorgen, Zagen, oggetto di “venerazione” e trascrizione da parte di Liszt), le straordinarie componenti armoniche e contrappuntistiche del Sanctus (specie nella primigenia fase corale a 6 voci, con vaga reminiscenza accordale della celebre Aria sulla quarta corda, e nell’Osanna in excelsis per due cori giustapposti) e, infine, le linee melodiche (sostenute dal primo violino) dell’aria per contralto dell’Agnus Dei.
Certamente nel capolavoro bachiano, di là dagli eccelsi valori e contenuti musicali, si potrebbe ravvisare una sorta di omaggio alla tradizione cattolica, pur estranea alla sua formazione o fede luterana: tuttavia, la sacralità stessa che ne emerge e che sostanzialmente deriva da precedenti lavori, di chiara matrice “protestante”, rivela il senso profondo di una religiosità priva di barriere ideologiche e sorretta da una inestinguibile fede soggettiva, sovente espressa da una pluralità di codici e simbologie numeriche (derivanti dalla Gematria). Ne danno testimonianza gli acronimi “JJ” (Jesus Juvat), che compare nell’intestazione delle quattro sezioni della Messa, e “DSG” (Deo Soli Gloria), apposto nella pagina finale di una partitura nella quale abbondano anche altre tipologie di riferimenti e combinazioni numerologiche. Al riguardo andrebbe rammentata l’appartenenza di Bach all’associazione Correspondierende Sozietät Wissenschaften (Società di corrispondenza per le scienze musicali), fondata a Lipsia nel 1738 da un allievo di Bach, Lorenz Christoph Mizler, con lo scopo di approfondire le connessioni fra musica e matematica: il Nostro vi entrò come quattordicesimo membro (per scelta calcolata), solo nel 1747 (l’anno in cui venne ideata la composizione o, meglio, l’architettura musicale della Messa, ma pur sempre un anno forzatamente gematrico, poiché possono alternarsi 1 e 4, ossia 14, e sommarsi 7 + 7, sempre 14), offrendo per la sua ammissione il celebrato quadro, che lo ritrae con una giacca (adornata di 14 bottoni!) e con un foglio, sul quale si evidenzia un canone triplex a 6 voci, delle quali solo tre risultano annotate, mentre le altre devono essere dedotte; la soluzione del mistero enigmistico-musicale avvenne dopo oltre un secolo, allorché venne rinvenuto un secondo dipinto, nel quale il foglio si presentava rovesciato, svelando l’arcano nella sovrapposizione dei due fogli (anche nei contenuti notazionali del canone sono rilevabili numerosi riferimenti alla Gematria e un doveroso omaggio a Georg Friedrich Händel, undicesimo membro dell’associazione, in quanto la voce inferiore è tratta dal basso di una sua ciaccona).
Le digressioni in materia bachiana sono quasi inevitabili, soprattutto se l’ascolto di un capolavoro, come la Messa, pone sovente interrogativi di varia natura sulla concezione di simili affreschi musicali: se, poi, l’esecuzione e l’interpretazione collimano con la perfezione e la citata grandiosità della partitura, il tutto assume i contorni dell’evento e la consapevolezza di un privilegio offerto agli astanti ceciliani, muti, attenti e compenetrati nello spirito della lunga sequenza musicale, protrattasi per due ore senza pause se non i respiri degli interpreti e l’alternarsi dei brani.
Già si è accennato inizialmente della profonda esegesi operata da sir Antonio Pappano: pienamente in sintonia con il suo pensiero e con le sue scelte stilistiche, miranti a conferire logicità ai contenuti musicali ed espressivi, l’orchestra dell’Accademia, pur ridotta nel conseguente organico bachiano (2 flauti, 3 oboi, 2 oboi d’amore, 2 fagotti, 3 trombe, Corno da caccia, timpani, 8 violini primi, otto secondi, 5 viole, 4 violoncelli, 2 contrabbassi e organo), si è espressa ai massimi livelli sia nell’insieme strumentale sia nelle parti solistiche. Al riguardo, vanno doverosamente citati, per perizia tecnica e per quanto hanno musicalmente offerto, Roberto Gonzalez-Monjas (primo violino), Luigi Piovano (primo violoncello), Andrea Oliva (primo flauto), Francesco Di Rosa (primo oboe e oboe d’amore), Alessio Allegrini (primo corno) e Andrea Lucchi (prima tromba).
Eccellenti anche i solisti, Lucy Crowe (soprano), Kurt Streit (tenore), John Relya (basso) e, in particolar modo, Sara Mingardo (contralto), ma a più alti livelli si è manifestata la performance del coro dell’Accademia, sempre egregiamente preparato da Ciro Visco. Infine, il pubblico: come già evidenziato, ha sempre seguito in “religioso” silenzio l’avvicendarsi dei mirabili brani, partecipando emotivamente all’esecuzione e condividendone spirito e finalità, ma al termine è letteralmente “esploso” in prolungate ovazioni e reiterate acclamazioni.
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