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Auditorium, emozionante “Stabat Mater” per la direzione di Netopil ( orchestra Accademia S.Cecilia) e la voce del soprano Saturova

Auditorium, emozionante “Stabat Mater” per la direzione di Netopil ( orchestra Accademia S.Cecilia)  e la voce del soprano Saturova

(di Sergio Prodigo).Dopo la “Messa” in si minore di Bach, un altro capolavoro del repertorio sacro sinfonico-corale, lo “Stabat Mater” di Antonin Dvořák per soli, coro e orchestra op. 58 è stato offerto all’ascolto e alla meditazione del pubblico ceciliano nell’abituale cornice dell’Auditorium del Parco della Musica, nella felice coincidenza dell’8 marzo e nell’esecuzione dell’Orchestra e del Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, diretti da Tomás Netopil, con la partecipazione del soprano Simona Saturova, del contralto Michaela Selinger, del tenore Richard Samek e del basso Andreas Scheibner.
Felice coincidenza, appunto, poiché la “Mater dolorosa”, raffigurata nel medievale affresco poetico, ossia l’omonima sequenza (nata come genere intorno al IX-X secolo come specifico supporto mnemonico ai vocalizzi allelujatici, espressi sull’ultima sillaba mercé l’aggiunta di un testo letterario, e successivamente sviluppatasi come forma autonoma e nel testo e nell’inventio melodica), attribuita ad un grande mistico come Jacopone da Todi, rappresenta idealmente l’emblema dell’umanità sofferta e sofferente, sovente trasfigurata nelle susseguenti e secolari trasposizioni musicali.
Così l’aveva intesa l’ancor giovane Pergolesi nella sua ultima e straziante fatica, affidandone l’espressione a due sole voci femminili e ad un ristretto nugolo di archi, e similmente altri autori di epoche passate, da Josquin des Prés a Palestrina, da Alessandro Scarlatti ad Antonio Salieri: già lo “Stabat” di Rossini si poneva in diversa ottica, inversa in certo qual modo rispetto alla tradizione sacra o a quella stessa “sacralità” forse estranea all’incombente movimento romantico, che, pur coltivando il genere, non ne illustrava l’originario spirito o l’insito misticismo, più connaturato ai linguaggi barocchi e classici e inspiegabilmente più consono alle tendenze estetiche dell’intero Novecento (si pensi ad altri “Stabat”, composti da Francis Poulenc, Zoltán Kodály, Krzysztof Penderecki e Arvo Pärt).
Di contro, specie nel tardoromanticismo, fatta forse eccezione per la tradizione protestante (dall’oratorio “Elias” di Mendelssohn all’“Ein deutsches Requiem” di Brahms), gli elementi drammatici – nei diversi contesti del repertorio sacro – sovente si mutano in “melodrammatici”, ossia assumono atteggiamenti estetizzanti, avulsi da un mistico intimismo e quasi ridondanti o sovrabbondanti di larghi tematismi e di fastose cornici sinfoniche e multitimbriche.
Così nello “Stabat Mater” di Dvořák: composto quasi a fatica, dagli inizi del 1876 alla fine del 1877 (ma eseguito solo dopo tre anni, nel dicembre del 1880 a Praga), in un triste periodo della sua esistenza (la morte prematura dei tre figli), riflette e contiene a pieno le tematiche di quel “dolore romantico” che si esprimeva attraverso una latente tendenza al cromatismo, un ampio uso di andamenti lenti e ieratici, una marcata e compatta timbricità della componente strumentale, mercé il sistematico impiego di raddoppi a sezioni, e una sorta di contrappunto funzionale, scevro da astruse combinazioni ma quasi rappresentativo di meditati effetti scenici.
Il tutto si avverte e si nota nei dieci brani che costituiscono la complessa partitura, pur difformi nelle varie combinazioni fra le voci soliste e l’ingente massa corale.
Già il brano d’esordio, “Stabat Mater dolorosa” (Andante con moto), si giova del plenum vocale, contrapponendo il quartetto dei soli al coro: il materiale tematico utilizzato è certamente concepito nello spirito della tipica dicotomia formale e dialettica, poiché all’incedere quasi melismatico di un iterativo e reiterato frammento discendente, in “minore” ma con figurazione cromatica e con il “doloroso” urto strutturale di seconda minore, si giustappone la fluidità di un fraseggio “maggiore” di ampio respiro e foriero di continue trasposizioni. Di seguito, il “Quis es homo” (Andante sostenuto), affidato al quartetto, enuncia con maggiore aderenza testuale lo struggimento del “planctus” e sfocia nel desolante “Eja Mater” (Andante con moto), affidato al coro e concepito – anche in virtù dell’emblematico tono di do minore e della caratterizzante figurazione ritmica – come una funerea reminiscenza di similari marce beethoveniane.

Melodrammatico si rivela, invece, il quarto numero, “Fac ut ardeat” (Largo), per una cantabilità quasi evocativa, espressa dalla voce del basso e sostenuta, specie nella parte centrale, dal coro femminile e dai radi accordi dell’organo, mentre l’inattesa “pastorale” corale del quinto, “Tui nati vulnerati” (Andante con moto, quasi allegretto), sembra offrire maggiore spazio tematico alla ricerca interiore, pur se retorici possono apparire taluni allusivi rinvii alla tradizione bachiana. Di contro, nei quattro brani susseguenti, “Fac me vere tecum fiere” (Andante con moto) per tenore e coro, “Virgo virginum praeclara” (Largo) per coro, “Fac ut portem” (Larghetto) per soprano e tenore, e “Inflammatus et accensus” (Andante maestoso) per contralto, prevale quella sorta di enfasi melodrammatica – già citata – che, pur non snaturando del tutto la sacralità del testo, ne interpreta in diversa ottica i contenuti, attraverso una costante e progressiva compartecipazione emotiva, espressa da più accentuati tematismi e da maggiori arricchimenti armonici.

Il conclusivo “Quando corpus morietur” (Andante con moto – Allegro molto) tende ad avvalersi principalmente del materiale motivico iniziale, ma proprio sull’“Amen” finale s’innesta un poderoso fugato che, nell’unico andamento veloce dell’opera, sembra quasi rappresentare – come acutamente osservava il musicologo Sergio Sablich – «un’invocazione alla pace e all’eternità della vita oltre la morte, nella quale del corpo dissolto rimarrà soltanto l’anima e ad essa sarà donata la gloria del Paradiso.»
L’esecuzione di un capolavoro (almeno nell’ambito della produzione sinfonica e sinfonica-corale di Dvořák) così complesso ed eterogeneo si è palesata e avvertita, nell’interpretazione di Tomás Netopil, estremamente conforme ai contenuti estetici della partitura, senza che possibili devianze ne mutassero la sostanziale e voluta staticità compositiva, attraverso altre dinamiche o grati acceleramenti, per vivificarne la difficile ricezione. Eccellente è apparsa la performance dei quattro solisti (con una particolare menzione per il basso Andreas Scheibner), dell’orchestra ceciliana e del coro, sempre in grado di esprimersi ai massimi livelli possibili: il “liberatorio” applauso finale di un pubblico, attento e silente per novanta intensi minuti, si è protratto a lungo, decretando ancora una volta il pieno successo di meritorie manifestazioni concertistiche accademiche, che hanno il raro e oggettivo pregio di proporre i più grandi affreschi sinfonico-corali della tradizione colta.