Orchestra Accademia S.Cecilia, da Bach a Mozart per la direzione di Ton Koopman
(di Sergio Prodigo). La versatilità e la duttilità di una grande orchestra sono certamente legate alla capacità di esprimersi ai medesimi livelli nei diversi repertori storico-estetici e nelle relative dimensioni organiche: così, sabato 15 febbraio all’Auditorium del Parco della Musica, in un programma classicista nella prima parte (con Johann Christoph Friedrich Bach e Wolfgang Amadeus Mozart) e barocco nella seconda (con Johann Sebastian Bach e Georg Friedrich Händel), la (ridotta) compagine ceciliana, diretta da Ton Koopmann, ha interpretato con estrema aderenza e uniformità stilistica sia una rara pagina del nono dei figli di Bach (la “Sinfonia” in si bemolle maggiore I/20) e la “Sinfonia concertante” in mi bemolle maggiore K. 297/b sia la “Sinfonia” dalla “Cantata” Am Abend aber desselbigen Sabbats BWV 42 e la “Suite n. 1” in fa maggiore HWV 348 dalla Water Music.
La “Sinfonia” del “Bach di Bükenburg” (i figli del genio di Eisenach sovente si designano con appellativi “geografici”, mercé le città nelle quali esplicarono la loro attività musicale: Wilhelm Friedemann ossia il “Bach di Halle”, Carl Philipp Emanuel ossia il “Bach di Amburgo” e Johann Christian ossia il “Bach di Milano” o il “Bach di Londra”) non ha offerto all’ascolto spunti e motivi di particolare interesse, a meno di non volervi ravvisare quegli elementi dello “stile galante”, praticato con maggiori fortune compositive dai fratelli “maggiori”. L’originalità tematica del primo movimento (Largo-Allegro) – l’unico proposto all’esecuzione – è apparsa quasi offuscata da una sorta di manierismo viennese di fine Settecento, pur se il materiale musicale rivela un abile trattamento strutturale e il linguaggio si snoda con sufficiente e gradevole linearità nella classica tripartizione formale, quasi celasse un intento, forse recondito, di introdurre il susseguente capolavoro mozartiano.
In effetti, la “Sinfonia concertante” per oboe, clarinetto, fagotto, corno e orchestra, tale si è manifestata, anche e soprattutto per l’eccellente performance dei quattro solisti dell’Accademia di Santa Cecilia: Francesco Di Rosa, Alessandro Carbonare, Francesco Bossone e Alessio Allegrini hanno magistralmente interpretato la complessa e virtuosistica pagina con raffinata tecnica e pregevole musicalità, vivificandone lo spirito e le peculiarità.
Di là dalle annose diatribe sull’originalità e sulle supposte manipolazioni di tale opera sinfonica di Mozart (l’originale quartetto di fiati non prevedeva il clarinetto, bensì il flauto), quel che emerge sia all’analisi del testo sia all’ascolto estemporaneo è una particolare compenetrazione fra gli stilemi della sinfonia e del concerto, unitamente ad una loro possibile integrazione che ne recupera l’ascendenza barocca nella contrapposizione fra il “ripieno” orchestrale e l’ideale “concertino” dei quattro strumenti solisti. Se nel primo movimento (Allegro) l’inventiva quasi giocosa si esalta negli intrecci dialogici, proponendo non macchinosi sviluppi ma costanti elaborazioni motiviche di diversa natura espressiva, nel secondo (Adagio) il gioco stesso delle imitazioni s’impone in veste più elaborata, scevra da contorni decorativi e fortemente connessa alle diverse timbricità dei fiati. Ugualmente nel finale (Andantino): è, tuttavia, la tipica forma del tema con variazioni a consentire e determinare combinazioni solistiche di rara efficacia, attraverso la successione ininterrotta di nove varianti timbriche e strutturali che, inusitatamente, approdano ad un transeunte e meditativo “Adagio”, prima di una terminale ripresa tematica, ritmicamente difforme ma brillante e travolgente.
L’esecuzione – come già evidenziato – è stata pienamente all’altezza di tali contenuti musicali, anche in virtù dello stato di grazia dei solisti e dell’intera orchestra, concertati e diretti con spirito veemente e con trascinante ma rigorosa gestualità da Ton Koopman, indotto dagli scroscianti ed applausi degli astanti a bissare proprio la sezione finale dell’ultimo movimento.
La seconda parte del concerto ha, di seguito, esaltato le capacità interpretative del celebre direttore (ma anche eccelso organista e clavicembalista) olandese, poiché già nella breve “Sinfonia” della “Cantata n. 42” di Bach l’apparato estetico si è sensibilmente mutato, acquisendo la tipica sonorità “barocca”, pur aliena nel contesto da sovrabbondanti filologismi ma rigorosa nella lettura analitica e nel conseguente impianto strutturale. Del resto la pagina bachiana, come tanti altri similari lavori, si avvale di una complessa concezione architettonica che, nello specifico, parte da un solo tassello (o mattone) – una semplice figurazione di quartina – ed edifica una superba costruzione, vivificata dall’onnipresente arte contrappuntistica. Non è mai agevole raffigurare e rappresentare poi, con il variegato mezzo orchestrale, tale potenza edificatoria, più consona ai manuali e alla timbricità del grand’organo da chiesa: Koopman ne ha reso, tradotto e offerto mirabilmente forme e contenuti, ma forse troppo breve s’è rivelato l’omaggio al sommo Bach.
Si sarebbe, solo probabilmente da parte di inesausti cultori, attesa almeno la proposizione di un “Brandeburghese” o di una “Suite”, in luogo della pur fascinosa e rutilante “Water Music” di Händel! Eppure, sopito l’innaturale disincanto, la leggiadria e la piacevolezza di quella “musica d’occasione”, scritta per dar sollazzi e svaghi alla corte inglese nel primo ventennio del Settecento, ha subito carpito attenzioni e fantasie degli astanti, dispensando gioia e gradevolezza nell’alternarsi multiforme e, sovente, stilisticamente cangiante dei vari andamenti, di arie e di danze, fino alla estroversa “Hornpipe” finale, giustamente bissata per acclamazione.
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