Accademia S. Cecilia, di scena i virtuosismi: Sir Marck Elder alla direzione del “Macbeth”
(di Sergio Prodigo). Un prestigioso debutto all’Accademia Nazionale di Santa Cecilia nell’evento di sabato 22 marzo all’Auditorium del Parco della Musica: Sir Mark Elder ha diretto il poema sinfonico “Macbeth” op. 30 di Richard Strauss, la “Rapsodia su un tema di Paganini” op. 43 di Sergej Rachmaninoff per pianoforte e orchestra, eseguita dal giovanissimo pianista russo Daniil Trifonov (vincitore nel 2011 del Concorso Čajkovskij), e le “Enigma Variations” op. 36 di Edward Elgar.
In scena i virtuosismi: quello della scrittura orchestrale, ravvisabile certamente in Strauss, onnipresente e paritario per tutte le famiglie strumentali, ma anche in Rachmaninoff, quello della variazione, intesa come specifica tecnica di elaborazione strutturale, e, infine, quello del pianismo trascendentale, naturale appannaggio del citato compositore russo; altri virtuosismi, inoltre, ossia quello conseguente del solista, costantemente indotto a tradurne musicalmente le astruse asperità, quello degli strumentisti, impegnati soprattutto nei sempre difficoltosi e ardui passaggi straussiani, e quello essenziale dell’abilità demiurgica del direttore, deputato a reinventare gli atti creativi nella loro composita organicità e logicità linguistica. L’unione estemporanea delle componenti enunciate ha conferito un alto valore artistico all’evento, arricchito e nobilitato anche dagli obiettivi contenuti estetici dei brani prescelti e proposti per l’esecuzione.
In effetti, già il “Macbeth”, pur se non gode della similare “popolarità” di altri poemi sinfonici straussiani (come “Don Juan”, “Ein Heldenleben” o “Also sprach Zarathustra”), forse anche perché primogenito nel genere (la prima stesura risale al 1886), si giova di un solido impianto formale di derivazione tripartita, ma la scia o, meglio, l’eredità lisztiana della trasposizione musicale del testo letterario si evidenzia proprio nella contrapposizione tematica, del tutto funzionale alle vicissitudini e ai tratti psicologici dei personaggi shakespeariani raffigurati. È una drammaturgia abilmente interpretata e disvelata dall’ancor giovane compositore bavarese, in virtù di coerenti e consequenziali scelte tematiche di ampio impatto emotivo ma prive di retorica declamatoria, di vacua melodicità o di quei possibili coinvolgimenti “magici” o esoterici caratterizzanti l’originale contesto tragico (come l’ombra di Banco e i vaticini delle streghe). Un’abile e funzionale orchestrazione completa il breve quadro tracciato, pur se frutto di una susseguente revisione del poema, che Strauss operò nel 1891, quando già aveva composto il mirabile (e già citato) “Don Juan” e anche l’intenso e profondo “Tod und Verklärung” (“Morte e trasfigurazione”): simile abilità e funzione hanno espresso e palesato sia l’orchestra ceciliana, per una complessità di scrittura che impegna – sul fronte esecutivo – archi, legni, ottoni e percussioni attraverso difficoltà tecniche di ogni sorta, sia Mark Elder, per la rigorosa esegesi della partitura e per una conseguente interpretazione logica e coerente, palese frutto di un’accurata concertazione.
Di seguito, Daniil Trifonov ha eseguito al massimo livello di perfezione possibile la “Rapsodia su un tema di Paganini”, una composizione per pianoforte e orchestra di notevole complessità strutturale, che Rachmaninoff scrisse nel 1934 e che esula sia dalla forma del concerto solistico sia dalla sua specifica tipologia estetico-linguistica. Il tema, tratto dall’ultimo dei “Capricci” paganiniani e già utilizzato per simili intenti da altri compositori (come Liszt e Brahms), origina una serie ininterrotta di ventiquattro variazioni, che non perseguono la tradizionale logica nella elaborazione progressiva del materiale motivico, ma nello spirito appunto rapsodico (ossia nel “cucire insieme” vari elementi senza vincoli formali) alternano quattro (o cinque) raggruppamenti omogenei e, in certo qual senso, programmatici. Possono, in tale ambito, individuarsi e citarsi almeno un ampio segmento (dalla settima alla decima variazione), che sovrappone (o contrappone) allo stesso tema prescelto la “demoniaca” (specie nell’immaginario romantico) sequenza del “Dies irae”, e una sezione più emotivamente lirica, che culmina nella diciottesima variazione con un sentimentale e magniloquente tematismo (abilmente ricavato dall’inversione “maggiore” dell’inciso iniziale del tema).
Il virtuosismo accomuna certamente sia l’orchestra sia il pianoforte, ma non è raro ravvisare nel trattamento “concertante” del materiale – da parte di Rachmaninoff – vaghi cedimenti a linguaggi più avanzati, forse mutuati o assimilati dai coevi lavori di Ravel e di Prokof’ev: tuttavia, l’innegabile fascino della sua particolare “inventio”, non manca mai di suscitare consensi ed entusiasmi, soprattutto se gli interpreti ne esaltano con trascinante intensità e partecipazione i contenuti estetici. Il lungo e fragoroso plauso tributato dal pubblico ha anche indotto il brillante concertista russo a concedere un raffinato bis, la “Gavotte en rondeau” di Bach (dalla “Partita n. 3” in mi maggiore per violino BWV 1006) nella “superba” trascrizione pianistica di Rachmaninoff.
La seconda parte del concerto è stata interamente dedicata al compositore inglese Edward Elgar con l’esecuzione di quel che viene (forse) considerato uno degli ultimi capolavori della letteratura tardoromantica, le “Variations on an Original Theme (Enigma)”, come recita l’esatta denominazione di un’opera sinfonica di ampio respiro e particolare concezione, scritta nel 1899. La particolarità risiede non tanto nella forma, quanto in quella attribuzione “enigmatica” che – nello specifico e alla stregua di quanto prescrivevano i canoni fiamminghi – ne celerebbe il significante musicale. Infatti, ciascuna delle quattordici variazioni reca l’intestazione di una sigla, di un nome o di un soprannome: si tratta di familiari, amici e conoscenti ai quali Elgar dedica una particolare cornice che ne raffigura musicalmente il carattere, i modi e i comportamenti. Certamente non importa né appare essenziale, almeno per chi ascolta, la conoscenza o l’individuazione dei personaggi né tantomeno il ritratto che ogni variazione è in grado di offrirne (tranne forse, l’ultima, la più ampia, ossia il finale “autoritratto”): quel che si rivela, invece, e che si è potuto intendere, è l’assoluta finezza della tecnica orchestrale, i frequenti squarci lirici, una inesausta inventiva tematica e anche una sorta di solennità espressiva di immediata assimilazione. Nulla di veramente “enigmatico”, pertanto, emerge ed è emerso all’atto esecutivo, gradevole, avvincente, esaltato da una straordinaria performance dell’orchestra e agevolato da una chiarezza espositiva che il direttore, Mark Elder, ha donato alla non breve sequenza dei brani; al termine, gli entusiastici e prolungati applausi del pubblico ne hanno decretato la piena comprensione e l’incondizionato gradimento.
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