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Orchestra Accademia S.Cecilia, ottanta minuti di grande musica sulle note di Mahler. Alla direzione Vladimir Jurowski

Orchestra Accademia S.Cecilia, ottanta minuti di grande musica sulle note di Mahler. Alla direzione Vladimir Jurowski

(di Sergio Prodigo) L’esecuzione di una Sinfonia di Mahler costituisce di per sé un accadimento musicale di notevole significato e di profonda valenza artistica: se, poi, la Sinfonia è la Sesta, se a dirigerla è un ancor giovane e affermato direttore, come Vladimir Jurowski (figlio e nipote d’arte), e a eseguirla è l’Orchestra Sinfonica dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, allora l’evento assume – anzi ha assunto nella tepida serata di sabato 29 marzo all’Auditorium del Parco della Musica – caratteristiche e sembianze di alta e straordinaria incisività e di particolare impatto emotivo.
Del resto, è proprio il contenuto musicale di un capolavoro sinfonico, scritto fra il 1903 e il 1906, ma forse concepito da Mahler nella quiete della Carinzia, a rivelarne, pur senza l’ausilio di approfondite analisi, la particolare forza espressiva, non aliena da tratti autobiografici e da una sorta di preveggenza di quei “colpi del destino”, simboleggiati dai due possenti impatti percussivi del “martello” nell’ampio e drammatico spettro sonoro del Finale. L’analisi, appunto, mostrerebbe l’abilità architettonica dei quattro tempi, le sequenze e le peculiarità tematiche, gli spessi intrecci contrappuntistici e l’accurata strumentazione dei passaggi: l’ascolto, invece, ossia la semplice ricezione e la progressiva assimilazione della sola musica che la gigantesca orchestra trae dai fitti solchi pentagrammati, ne palesa e ne svela senza infingimenti la genesi e la storia compositiva, donando senso e significato a quell’appellativo di “tragica” che – a detta di Bruno Walter, grande interprete e biografo di Mahler – fu lo stesso compositore ad attribuirvi, forse conscio delle stesse scelte musicali operate.
Già l’impatto iniziale del primo movimento (Allegro energico, ma non troppo. Heftig, aber markig), pur edificato secondo il tradizionale schema sonatistico, rivela tale tragicità: s’intende una marcia, lugubre ma non funerea (come nella Quinta), estremamente scandita ritmicamente ed espressa da un tema greve, evocativo e fonte di complessi e conseguenti lavorii fraseologici e timbrici. Certamente nulla farebbe in tale contesto presagire l’improvviso insorgere di un secondo tema, dolce e appassionato nel contempo: il “tema di Alma”, che per lo stesso Mahler “fissava il carattere” della sua compagna di vita, è nettamente contrastante con il precedente, sia nella pura espressione musicale, sia nella diversa tensione tonale e sia nella dimensione melodica, tanto da indurre taluni esegeti a ravvisarvi a livello motivico quella ancestrale e letteraria dicotomia estetico-storico-filosofica tra Thanatos ed Eros.
Possibile, se non plausibile, anche per quanto accade nel prosieguo: l’assunto dialettico origina, in effetti, una straordinaria e complessa elaborazione che s’avvale con ogni possibile artificio degli spunti tematici e della loro stessa pregnanza armonica, senza disdegnare trilli, tremoli e timbricità miste di ottoni in sordina, di celeste e persino di campanacci, quasi a simboleggiare le alpestri e solitarie cime della citata Carinzia; infine, un’ampia ripresa ripercorre, ma varia la materia esposta, pur se il tema dell’Eros si esalta nella sua più eclatante declamazione.
Nella esecuzione ceciliana, che qui si commenta, l’annosa problematica circa la distribuzione dei due movimenti interni è stata risolta a favore dell’Andante moderato, anteposto allo Scherzo: così non era nell’originale partitura, ma Mahler prima ne mutò l’ordine e successivamente lo ripristinò, originando un persistente dilemma che ancor oggi induce a scelte direttoriali diverse. Forse l’insita drammaticità del tempo iniziale deporrebbe a favore di un ampio momento di stasi, poiché lo spirito nostalgico e sentimentale dell’Andante, affine per molti versi al famoso e “cinematografico” Adagetto della Quinta, sembrerebbe operare un distacco netto dal titanico scontro appena narrato: ma l’idillio, rappresentato dalla lunga tematicità esposta e immerso nel clima timbrico e quasi pastorale del corno inglese, dei campanacci, del Glockenspiel dei corni e delle arpe, tosto s’infrange per una costante mutazione motivica che ne radicalizza le componenti fraseologiche, affidando allo struggimento degli archi i conseguenti e passionali sviluppi.
Lo Scherzo (Wuchtig, ossia pesante), invece, eseguito dopo l’Allegro, ne conserva e ne prolunga la drammaturgia, ma ne altera i toni attraverso sequenze quasi demoniache e grottesche, che, pur se mascherate dal tacito andamento di Ländler, trasfigurano e alterano le due idee motiviche principali anche nel susseguente Trio, ritmicamente instabile per l’alternanza inusuale di misure binarie e ternarie.
Il Finale (Sostenuto – Allegro moderato – Allegro energico), di contro, nella sua imponenza strutturale, si presta maggiormente a quelle interpretazioni extramusicali che potrebbero configurarlo come una sorta di rappresentazione della immarcescibile lotta fra l’uomo e il suo tragico destino. Le impressioni, all’ascolto, risultano tali, specie se condizionate da letture di svariati commenti, che citano fonti letterarie plurime e diversificate o convergenti esegesi: l’individualità delle possibili e difformi reazioni emotive ad una alternanza triplice di temi eroici, beffardi, trasognati e appassionati si annulla, forse, nei due già rammentati schianti del martello (probabilmente tre nelle intenzionalità compositive mahleriane, peraltro reintrodotti nella interpretazione del solo grande Bernstein), che sanciscono il temine e i termini della lotta, ma anche l’avverarsi di fosche premonizioni, se non il trionfo di Thanatos. Il resto, in fondo, è storia: nell’anno successivo alla prima esecuzione della Sesta, nel 1907, sarebbe scomparsa la figlia primogenita di Mahler, gli avrebbero diagnosticato una grave disfunzione cardiaca e, per trame meschine, gli sarebbe stato revocato l’incarico di direttore dell’opera di Vienna.
Purtuttavia, resta il capolavoro a trasmettere ancora, dopo oltre un secolo, sensazioni ed emozioni di ogni sorta in quegli ottanta minuti ininterrotti di Grande Musica: è quel che si è avuto il privilegio di ascoltare e provare, in virtù di una nobile e meditata interpretazione da parte di un direttore, Vladimir Jurowski, che ha operato una accurata sintesi timbrica del particolare colore orchestrale, già avvertibile visivamente nella disposizione della stessa compagine strumentale (gli otto contrabbassi in fondo, le percussioni suddivise nelle ali estreme e gli otto corni raggruppati a destra, a ridosso delle viole), ma che ha, soprattutto, saputo rendere logica e coerente la discorsività di tutto il materiale tematico.
Cosa dire, infine, dell’orchestra? Perfetta, come sempre, negli ardui e complessi passaggi della difficoltosa scrittura mahleriana, si rivela in tali occasioni anche consapevole della sua valenza e delle sue insite capacità di esprimersi ai più alti livelli. Conseguentemente, il folto pubblico non ha potuto che tributare, sia al direttore sia a tutte le famiglie orchestrali, interminabili applausi e rumorose acclamazioni, a suggello di un memorabile evento.