Auditorium, viaggio nello spirito russo: sul podio il giovane Kochanovsky a sostituire il grande Termikanov
di Sergio Prodigo. Lo scorso sabato c’era molta attesa all’Auditorium del Parco della Musica per Yuri Termikanov, preannunciato nella programmazione sul podio dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia: il grande direttore russo avrebbe dovuto dirigerla nei due ravvicinati eventi delle prime settimane di aprile, ma per motivi di salute ha dovuto annullare gli impegni artistici e, in sua vece, il pubblico ceciliano ha potuto intendere e apprezzare un giovane e valente interprete, Stanislav Kochanovsky (sempre di scuola e tradizioni russe).
Anche l’originario programma, dedicato ai due maggiori esponenti del “Gruppo dei Cinque” (Nicolaj Rimskij-Korsakov e Modest Musorgskij), ha subito una lieve modifica: in luogo della “Suite” da “L’invisibile Città di Kitezh” di Korsakov, è stata proposta in apertura la più consona (per le imminenti festività) “Ouverture” su temi liturgici “La grande Pasqua russa” op. 36 (sempre di Korsakov). Di seguito, sono stati eseguiti, con la partecipazione del coro dell’Accademia e del basso Evgeny Nikitin, tre brani tratti dal “Boris Godunov” di Musorgskij: la “Scena dell’Incoronazione” (Prologo, quadro I), il “Monologo di Boris” (Atto II) e la “Scena della morte” (Atto IV, scena VIII); nella seconda parte del concerto ancora Korsakov e la celeberrima “Shéhérazade” (ossia la “Suite sinfonica” op. 35).
Nel contesto storico-estetico del menzionato “Gruppo dei Cinque” (che comprendeva anche Aleksandr Borodin, Milij Balakirev e César Cui, propugnava la produzione di musica russa, nello spirito del nazionalismo romantico, e tendeva a differenziarsi dall’accademismo di derivazione tedesca), Rimskij-Korsakov, pur condividendone inizialmente scopi e finalità e una sorta di naturale e spontanea espressione compositiva di matrice autodidattica, finì col rappresentarne l’aspetto cattedratico o, quantomeno, legato alla stessa tradizione europea, invisa agli altri, avendone assimilato forme e costrutti (ampiamente dispensati alle giovani generazioni, poi, nel corso di oltre um trentennio come professore di Composizione e Orchestrazione presso il Conservatorio di San Pietroburgo).
Certamente in un brano come “La grande Pasqua russa”, composta nel 1888, l’elemento popolare appare preponderante, pur se connesso a quella antica religiosità mista di cristianesimo primitivo e di ritualità pagane: gli spunti motivici sono desunti da una raccolta di canti greco-ortodossi, la “Obikhod”, ma il trattamento di tale materiale tematico ne rivela un’abile manipolazione e un sapiente trattamento, sovente accentuati da una fastosa e funzionale strumentazione.
Ben altro è stato possibile cogliere, sia sul piano musicale in senso lato sia per gli effetti emozionali, nelle susseguenti pagine del “Boris” di Musorgskij: eseguito nella versione originale, cioè scevra o mondata proprio dalle dotte correzioni operate da Korsakov (e non solo su tale opera ma anche su altri lavori dei coevi e maggiori esponenti dei “Cinque”, ossia lo stesso Musorgskij e Borodin), ha mostrato e palesato la particolare concezione armonica e strutturale dell’estroso, discontinuo e geniale compositore russo, molto avanzata perché legata ad una forte componente di derivazione popolare e (anche) folkloristica (almeno in taluni momenti, ma aliena da citazioni dirette), interconnessa a quella sorta di nobile dilettantismo che ne sancisce talvolta un non celato processo di emancipazione verso profetiche forme di pantonalismo generalizzato.
I tre diversi momenti sinfonico-corali, mirabilmente interpretati dalle magnifiche compagini ceciliane e dall’eccellente basso Evgeny Nikitin, non possono certamente illustrare e rappresentare i contenuti storico-estetici di un fosco dramma della storia russa (ossia quel che viene definito il “Periodo dei torbidi”: una sorta di interregno contrassegnato, fra la fine del Cinquecento e gli inizi del Seicento, da guerre e lotte intestine, che determinarono la fine della dinastia dei Rurikidi e l’avvento dei Romanov), nato dalla vena drammaturgica di Aleksandr Puškin e traslato sulla scena lirica e teatrale da Musorgskij con geniale e sregolata inventiva (sia nel testo letterario sia nella complessa partitura dell’opera). Forse appare ricolmo – come evidenziava lo stesso Korsakov, accingendosi a rimaneggiarlo – di «imperfezioni, ruvidezze armoniche e incoerenze musicali», ma evidenzia un profondo e originale estro creativo, che si distacca da ogni possibile tradizione melodrammatica coeva e si avvale linguisticamente di modalità spesso avulse dal senso tonale e corroborate armonicamente da geniali e irripetibili intuizioni.
Del resto, proprio la storia della lunga e complessa elaborazione e quella altrettanto annosa delle sue mutazioni critiche è significativa: ben tre le versioni originali (la prima del 1868-69, la seconda del 1871-72 e la terza del 1874), tre le revisioni (con tagli, aggiunte e riorchestrazioni) di Korsakov; nel Novecento, oltre le due (egregie) versioni orchestrali di Šostakovič, vanno citate anche le edizioni critiche di Pavel Lamm e Boris Asafev, di Karol Rathaus e di David Lloyd-Jones.
La versione “autentica”, proposta all’esecuzione, ha impressionato per la grandiosità e fastosità dell’impianto narrativo e della stessa struttura compositiva, forse «selvaggia e barbara» (come si legge nelle note del programma di sala) in taluni momenti ma, pur sempre, suggestiva ed emozionante all’ascolto, specie quando tutte le componenti (il direttore, il solista, il coro e l’orchestra) si esprimono ai più alti livelli possibili. In particolare, va rilevata la meticolosa lettura e il lavorio di concertazione, operati da Stanislav Kochanovsky, che ha dato ampio risalto al vivido colore orchestrale ed esaltato la ruvida e a volte eclatante timbricità dell’apparato strumentale, soprattutto nella fantasmagorica “Scena dell’Incoronazione”. Similmente il coro, sempre egregiamente preparato da Ciro Visco, ha reso con estrema efficacia e veemenza quel complesso ruolo drammaturgico che inscena e simboleggia la voce del popolo russo: in tale ambito, dopo l’intenso “Monologo” che Nikitin ha interpretato con crescente ed avvincente espressività, anche nella “Scena della morte” sublime si è rivelata la limpida vocalità della trenodia finale.
Il non numerosissimo pubblico ha tributato un caldo e appassionato plauso al termine dell’esecuzione: molteplici anche le “chiamate” per il direttore, il solista, il coro, il direttore del coro e le famiglie strumentali.
Nella seconda parte del concerto in scena solo l’orchestra: ha magistralmente eseguito una delle pagine più celebri e conosciute del repertorio sinfonico russo, quella “Shéhérazade” che s’attaglia più d’ogni altro suo lavoro alla figura e all’opera di Nicolaj Rimskij-Korsakov, poiché ne illustra pregi (notevoli per l’obiettiva bellezza dei temi e per la rutilante orchestrazione) e limiti (la rivisitazione colta della tradizione popolare).
Composta nel 1888 e ispirata a episodi e quadri delle “Mille e una notte”, si configura come una suite sinfonica in quattro movimenti (“Il mare e la nave di Sinbad”: Largo e maestoso – Lento – Allegro non troppo; “La storia del principe Kalender”: Lento – Andantino; “Il giovane principe e la giovane principessa”: Andantino quasi allegretto – Pochissimo più mosso; “Festa a Bagdad; il mare; il naufragio”: Allegro molto – Allegro molto e frenetico – Vivo – Allegro non troppo e maestoso), non aliena da influenze o labili derivazioni lisztiane (nella concezione ciclica dei temi) e forse anche wagneriane (almeno nell’individuazione di taluni Leitmotive, peraltro disconosciuti dal compositore medesimo).
La sua proposizione genera (e ha generato) sempre benefiche sensazioni di piacevolezza e di gradevolezza: entusiastiche, pertanto, le ovazioni del pubblico, tributate a lungo sia al giovane Kochanovsky, sia al primo violino in veste di solista, Carlo Maria Parazzoli, per la sua pregevole e impeccabile performance, e sia all’intera compagine orchestrale.
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