Chiusi i battenti, i conti tornano. Boom di buyers e operatori, alle spalle le cifre del pessimismo. Occhio ai vini da scoprire
Di Antonio Paolini
Prima volta di un presidente del Consiglio in visita a Vinitaly (ed è il dato “politico” più importante per l’enomondo e in genere agroalimentare italiano di cui il vino è pilastro), che per giunta oltre a riconoscere ed elogiare, incoraggia, e disegna un orizzonte di forte crescita, a partire dal già fiorente export, in prospettiva 2020. Aumento degli operatori del 6%, con un totale di 155.000 presenze. E, nel grande composé, fa spicco la crescita della componente buyer esteri, 3.000 in più del 2013 (da 53 a 56.000) arrivando a coprire così il 36% del totale delle presenze. Sono i numeri, decisamente positivi, con cui chiude battenti Vinitaly 2014. Ma i numeri direbbero (e varrebbero) fino a un certo punto, se non ci fosse di sottofondo un “sentiment” diffusamente migliorato rispetto al mix di depressione (da mercato interno) e timore (per le prospettive estere e più in generale per quelle del sistema Paese e della sua tenuta) che avevano tenuto banco qui a Verona nelle due edizioni precedenti. Il refolo di speranza (che la visita di Renzi ha in qualche modo somatizzato, rendendolo più visibile e palpabile) ora c’è davvero. Può dunque gongolare il Direttore Generale Giovanni Mantovani, stilando intanto la hit parade dei Paesi aficionados dei nostri vini in base al numero di compratori ed esploratori di mercato spediti in Fiera: . E può esser ben contento anche il presidente di Verona Fiere Ettore Riello, ora che ha incassato (la notizia era da tempo nell’aria, ma ora è saldamente ufficiale) per Vinitaly il ruolo di gestore degli spazi vino all’Expo 2015 di Milano.
Fin qui grandi fatti e grandi numeri. Ma un Vinitaly che si rispetti vuole che si parli di bicchieri e bottiglie: quelli con cui decorare, scandire, contrappuntare, ricamare l’anno che ci separa dal prossimo ciclo del vino: vendemmia, messa in produzione, e vetrina del “pret à boire”. Ovvero, Vinitaly “next”.
Ecco allora alcuni “miei” vini di questo Vinitaly. Saltando (perché mi parrebbe inutile segnalare l’ovvio) i Sassicaia e i Monfortino, i Masseto e i Giulio Ferrari (splendido, per la cronaca), i San Leonardo (idem) e i Biondi Santi, o i top gun della mia regione d’origine, l’Abruzzo, come Valentini, Pepe (vedi servizio precedente), Masciarelli. La lista che segue è invece di 13 vini da provare e scoprire. Non sconosciuti, attenzione: ma “giusti” per questo passaggio. Perché (come dicevo più su) il vino è un ciclo (ed in questo è molto zen). E ogni anno il nuovo affianca il vecchio, per fortuna, visto che i grandi vini migliorano nel tempo, senza bisogno di rottamarlo al volo (a quello, semmai, ci si penserà noi, aprendo via via le bottiglie giuste). Ecco allora, non in classifica – per carità! – ma elencati in modo paritetico come in una piccola wine list:
13 VINI DA SCOPRIRE ASPETTANDO VINITALY 2015:
Bellenda Prosecco Superiore Docg Metodo Classico millesim. S.C. 1931
La casa è un brand di totale affidabilità, i vini ottimi in generale. Ma questo S.C. dedicato al fondatore è roba unica. A convincermene è stata la cosa più antitetica che esista, sulla carta, al concetto di Prosecco: una “verticale” profonda oltre un decennio. E dagli esiti vincenti. Esempio, un 2007 super, un 2010 a ruota, un 2003 vivo, sano… Morale: non si tratta di ripudiare il modo di bere e godere Prosecco; ma di un antidoto (splendido da scoprire) al concetto da bar del “prosecchino, dotto’?” (che spesso è solo un volgare, anonimo frizzante), e di un gran modo per ricordare che Prosecco è anzitutto il nome di una (bella) nostra uva indigena (detta anche Glera). Non di una marca di aperitivi. Cercate l’S.C., dall’annata nuova alle precedenti. Vi stupirà.
Cocci Grifoni Offida Pecorino Docg Colle Vecchio 2013
Ormai è un piccolo fenomeno: rinato come totem di pochi, pescato in quello che era il campo “misto” bianco d’un tempo in Centroitalia, tra sud Marche e Abruzzo. Lì varie uve e vitigni convivevano, compensandosi a vicenda per acidità e maturazioni, in una viticoltura non certo di precisione, scarsa in enologia, che il blend lo faceva alla meglio già in vigna: Trebbiano, Cococciola, Passerina e, appunto, Pecorino, la più robusta, tardiva, aromatica del gruppetto. Cocci Grifoni è stata la prima azienda a puntarci: poi parecchi si sono impegnati. Ma questo 2013, (super première Vinitaly: dovrete attendere un po’ per averlo, marcatelo stretto) teso, serio, lungo (ne è stata prodotta circa metà del solito, la qualità è altissima) rende giustizia ai pionieri.
Bucci Verdicchio dei Castellli di Jesi Classico Superiore Doc 2012
Il principe di casa (una casa decisamente rinomata) è la Riserva di Verdicchio: il Villa Bucci, capace di eccelse prestazioni e grandi traversate del tempo, con longevità addirittura spiazzanti. Qusto dunque sarebbe il fratellino minore. Ma, considerato il costo, e paragonato al mondo dei bianchi (non solo nostrani) il Verdicchio che solo osando molto si può definir base per Bucci si palesa come un vero gioiellino. Ancora di là da venire la mandorla distintiva del vitigno (qualche mese e ci siamo..), per ora erbe e fiori gialli fanno il bouquet di questo vino, giovanissimo, malgrado il suo autore da lustri ormai abbia scelto di uscire un anno dopo la media degli analoghi per dare a chi compra vini di già certa soddisfazione. Questo lo è, e lo sarà ancora per un pezzo.
Rocca del Principe Fiano di Avellino Dop 2012
Il Fiano è un vitigno straordinario (e gli habitat della Dop Avellino idem). Chardonnay mediterraneo, l’aveva definito un critico. Ma secondo me non servono neppure paragoni con l’uva bianca più “universale” e insieme dagli apici (Borgogna e Champagne…) più osannati per dirne bene. Basta testare. Soprattutto andando indietro nel tempo. Perché questo vino fino a pochi anni sterminato a pochi mesi dalla vendemmia da un pubblico ancora di bocca buona e mal consigliato, è un campione di evoluzione. Al Vinitaly ho avuto il 2007 di Rocca del Principe (sontuoso è la parola giusta) prima di approcciare il 2012: note floreali intense, frutta fine e mineralità. Bocca già piena, ma di gran prospettiva. Il film giusto, introdotto da un grande trailer.
Ca’ Lojera Lugana Doc Riserva del Lupo 2011
C’era una volta un lago, e dei casotti attorno, che barcaioli contrabbandieri usavano per nascondere merci che scottavano. Per tener lontani curiosi e indesiderati, la voce fatta correre è che far la guardia i desperados lacustri avessero messo dei lupi. Casa di lupi, si traduce appunto Ca’ Lojera dal dialetto locale. Ma qui di lupi neanche l’ombra. E, invece, che Lugana! Il bianco da Trebbiano locale detto Turbiana s’è affacciato da tempo nell’élite nazionale. Ma questo Riserva può abitarci fisso. Non vede legno, e si sente. La freschezza e la tensione sono il timbro. Il misto di erbe sapide, agrumi maturi e spezie piccanti il mix che lo rende unico, insieme a una chiusura nobile e lunghissima.
Poderi Dal Nespoli Sangiovese di Romagna Superiore Doc Prugneto 2012
Dell’azienda ho già parlato dalla Fiera, raccontando (a proposito di ecocompatibilità) come la loro cantina sia bello e riuscito esempio di architettura “green”, di come recuperino acqua e producano energia pulita, e del lavoro che fanno nel campo. Metteteci poi la ciliegina del portare per il mondo, con le bottiglie, le famose “sfogline” emiliane a far pasta dal vivo, per trasmettere il concetto “intero” di wine & food loro e all’italiana. Ma tutto questo, pur lodevole, resterebbe zoppo se i vini non fossero giusti… come il goloso, succoso Prugneto: introdotto da un naso elegante e carico di frutto, e sostenuto dal calice… alla cassa anche da un prezzo di totale ragionevolezza.
La Sibilla Campi Flegrei Doc Piedirosso Pompeiano 2012
Prima notizia: costa davvero il giusto. Seconda: viene da una terra che, a guardarla da lontano, pare più adatta a cure termali che a far vino. E invece… I Campi Flegrei sfruttano il suolo vulcanico “fresco” per dare vini (è prerogativa del vulcano) di grande tensione minerale che, se vestita adeguatamente di frutto, diventa sinonimo di vini godibili e mai pesanti, mai noiosi. È il caso di questo Piedirosso (l’uva si chiama così perché non solo il grappolo, ma anche il tralcio si fa scarlatto a maturazione) figlio de La Sibilla, azienda relativamente giovane (1997) e con vigne però storiche, oltre 80 anni. Atro sinonimo di qualità. E il Pompeiano va giù alla grande: grazie ad immediati aromi di frutti rossi e spezie, dalla trama tannica equilibrata e gestibile. In una parola, da godere.
Tenuta Dalle Ore Vicenza Doc Cabernet Franc 2011
Quand’è che un vitigno smette di essere “ospite” e, grazie a indiscusso e lungo lavoro in partnership col territorio in cui è andato a vivere, può considerarsi a ogni effetto suo “cittadino”? Bella domanda. Cui risponde a modo suo (e facendo un figurone) questo Cabernet Franc, vitigno bordolese, la cui targa ne indica la nascita e (bella) crescita nel Vicentino. Ma qui in Veneto, e in questa zona, il Cabernet è sbarcato già dai tempi di Napoleone. A fine Settecento c’era già. E le vigne da cui Tenuta Dalle Ore produce il suo sono “giovanotte” di oltre 50 anni d’età. Per di più, questa è una delle aziende (che per me e per il mercato più accorto sono un focus) che lavorano il più possibile in ecocompatibilità. Ma alla fine è il carattere del vino che conta e parla. Note fumé tipiche del vitigno, humus (ma senza erbacei respingenti), frutto, tannini gusti. Tutto a una dozzina di euro. Targato Francia, starebbe sei volte tanto.
Valle dell’Acate Cerasuolo di Vittoria Classico Docg 2010
Che bella denominazione questa, quando è interpretata così… Nero d’Avola e Frappato in blend, della zona più vocata, trattati a dovere. Cioè senza forzare sulla concentrazione (un vino così color nero-blu è solo una sfida al buon senso enologico e un’inutile prova di forza), ma senza poi corrività alcuna su profumi, tessitura, tannini. C’è il giusto di tutto, per un vino amabile e carezzevole, ma pieno di personalità. Che si può bere come un piccolo Borgogna siculo anche quanto a temperatura (14-15°), e sa fare allora amicizia anche con piatti di mare importanti. Lo produce e lo firma Gaetana Jacono, decorata, oltre che dalla bontà dei vini, anche da un premio nazionale per il lavoro “ecofriendly” in azienda.
Verrone Cilento Aglianico Doc Girapoggio 2010
C’è una zona del Salernitano che i raiders del mondo vino conoscono bene: si chiama Cilento. Mette insieme altezza collinare e mare che si vede sotto a piombo, terreni speciali (misti di argille e calcare) e vento di brezza che rinfresca le notti e regala umidità, intrisa di sale, a terreni e uve. Qui lavora Verrone, azienda di “convertiti” al vino (ce ne sono, in Italia, tante) da altri mestieri, e ora devotissimi al loro nuovo sogno. Vigne antiche, terroir speciale, impegno pieno e di data non sospetta per l’ecosostenibilità stanno dietro questo Aglianico dal piglio maschio e dai tannini tipici dell’uva, ma gestibile e governabile grazie a note gustative altrettanto piene, e al lavoro che il tempo farà sulla sua gioventù, oggi giustamente ancora impetuosa.
Proietti Cesanese di Olevano Riserva Doc Brecciara 2010
È da un pezzetto che il Cesanese, autoctono del Lazio a sud di Roma (il Frusinate dei colli prossimi a Fiuggi) è lì lì per divenire primattore di una rimonta dei vini regionali, da tanti auspicata (Roma è epicentro vinario nazionale), ma non ancora davvero partita. L’avvio sarebbe più facile e certo se ci fossero più vini seri, franchi, e insieme identitari, come questo Brecciara, figlio legittimo della cantina da cui nasce. Vigne vecchie (un tempo maritate alla canna palustre, non c’erano soldi neanche per fare i pali in vigneto) a 550 metri di altezza. In cantina cemento, acciaio, e le botti medie e grandi in cui “cresce” questa Riserva. In campo, agricoltura rispettosa: no diserbo e quasi zero chimica, rame e zolfo alle piante. Il risultato? Parla forte nel bicchiere.
Villa Matilde Falerno del Massico Rosso Dop Vigna Camarato 2007
Tutti i vini italiani, e i produttori dei medesimi, anni fa (si era ancora ingenui) si piccavano di sciorinare pedigree che partissero dall’antica Roma, e in cui il nome più gettonato (manco fosse Robert Parker jr., l’avvocato Usa che per anni ha “fatto” le quotazioni mondiali del vino) era Plinio: a scelta, il Vecchio o il Giovane. Ma se si parla di Falerno, non c’è bisogno (la letteratura bi millenaria che lo riguarda è sterminata) di aggiunger nulla. Se non che questo di Villa Matilde è “il” Falerno: vulcanico per origini al 100%, rispettato al 200%, tanto che l’azienda esce oggi (!) con il 2007. Perché il suo vino bandiera ha bisogno di anni per essere pronto. E (premio per chi lo sceglie) per evolvere secondo totali potenzialità ha poi davanti un lungo, felicissimo periodo. Compatto, asciutto, potente ma mai inutilmente muscolare, complesso e speziato, profondamente minerale, è un vero campione del Sud.
Vitereta Vin Santo Chianti 2003
Mettersi in testa di far Vin Santo è di per sé impresa eroica, Ben che vada (cioè a farlo giusto) significa tenere per anni e anni bloccato in casa un vino che per ogni 5 litri prodotti, tra appassimento ed evaporazione dalla botticella minima (56 lt) in cui evolve, “mangia” 100 kg d’uva. Ma meno male che eroi come quelli di Vitereta ci sono! Devoti del bio (oggi biodinamici) da decenni, produttori di Chianti dei Colli Aretini, ma con la passione per questo vino, estremo e sicuramente antitetico a concetti puri di margini e arricchimento. L’assaggio del 2003 (propostomi in Fiera), denso e ricco, ma assolutamente non stucchevole, con la fase dolce temperata d’acidità e aromaticità complessa, è un cadeau. Cercatelo. Ce n’è, ovviamente, pochissimo.
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