Auditorium, di scena Rudolph Buchbinder uno dei massimi interpreti del pianismo romantico
(di Sergio Prodigo) Un prestigioso direttore francese sul podio dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, Louis Langrée, “Chevalier des Arts et des Lettres”, e uno dei massimi interpreti del pianismo classico e romantico, Rudolph Buchbinder: nel concerto di sabato 12 aprile all’Auditorium del Parco della Musica, dedicato a Brahms, l’assenza di Temirkanov, già evidenziata per lo scorso evento, è stata ampiamente “compensata” e colmata da due eccellenti esecuzioni del “Concerto n. 2” in si bemolle maggiore per pianoforte e orchestra op. 83 e della “Sinfonia n. 4” in mi minore op. 98.
I due capolavori sinfonici appartengono a quella feconda stagione della creatività brahmsiana, compresa fra il 1876 e il 1887, che vide la genesi delle quattro “Sinfonie”, delle due “Ouvertures”, del “Concerto” per violino e orchestra, del “Doppio Concerto” per violino, violoncello e orchestra e del “Secondo Concerto” per pianoforte e orchestra. Genesi, appunto, nell’accezione di opere concepite da un genio creativo inesausto, in grado di plasmare idee e concetti che nel solco della tradizione classica fossero tali nell’“inventio” e nel “tractus” (intesi come ideazione e sviluppo) da esprimere e rappresentare l’assoluto in musica: in un contesto estetico che vedeva l’incontrastato dominio della materia sulla forma o, quantomeno, la necessità di anteporre una derivazione o giustificazione letteraria al linguaggio (da Berlioz a Liszt, da Wagner ai compositori delle scuole nazionali), la musica pura, estranea alla rappresentazione del mondo sensibile, trovava forse nel solo Brahms l’unico compositore in grado di concretare un formalismo antiromantico, alieno dal raffigurare ed esternare sentimenti ed emozioni, asemantico e inespressivo, coniugandolo tuttavia con la suprema bellezza delle formulazioni motiviche e con le architettoniche e strutturali variazioni di sviluppo. Eppure, di là dalle remore hansickliane, le sue enunciazioni tematiche e il relativo trattamento armonico e strumentale suscitano sovente all’ascolto molteplici sensazioni e suggestioni, pur di natura diversa, fortemente evocative delle idealità romantiche, in virtù di passionali fraseologie, di trascinanti passaggi e di struggenti elaborazioni melodiche.
Il “Concerto n. 2”, composto nel 1881, non si sottrae a questa logica ideativa, compositiva ed emozionale: già nel primo movimento (“Allegro non troppo”) la stessa immediatezza del primo tema, preannunciato dal corno, disegna scenari quasi eroici attraverso una costante dialogicità fra il pianoforte e la massa orchestrale, specie nel contrasto con un secondo tematismo più sensuale e appassionato. Il rilievo che assume lo strumento solista, soprattutto nel conseguente sviluppo, si esplica nei consueti passaggi di bravura, non scevri da una timbrica di tono percussivo, che si stempera, tuttavia, nella terminale caudalità della ripresa, allorché la grandiosità della prima idea si dispiega orchestralmente, sostenuta dai prolungati arpeggi del pianoforte.
Di seguito, Brahms innesta nella tradizionale tripartizione dei tempi uno “Scherzo”, reinterpretando la forma nello spirito sinfonico: infatti, alla prevedibile leggerezza di similari movimenti sostituisce una possente struttura (“Allegro appassionato”), articolata in tre sezioni, che alternano squarci drammatici iniziali, momenti di gioiosa levità (nel virtuale “Trio” centrale) e forti accentuazioni espressive nella finale riesposizione.
Nulla farebbe, così, presagire la mesta e religiosa cantabilità dell’“Andante”, il cui tematismo, per gran parte affidato al violoncello solista, s’ammanta di un’aura di puro lirismo. Non casualmente, ma in altra sede, si rilevò la somiglianza della splendida enunciazione tematica con l’iniziale inciso della “Romanza” in fa diesis minore op. 28 n. 2 di Schumann: forse la breve citazione, pur limitata alle prime quattro note, potrebbe quasi intendersi alla stregua di una reminiscenza, annidata nella memoria latente e risalente agli anni felici trascorsi nella dimora schumanniana. Resta, tuttavia, la sconvolgente bellezza di un’idea e del suo variegato dispiegarsi, che spesso assume le sembianze della meditazione e della ricerca introspettiva.
Tutt’altro accade nel “Finale” (“Allegretto grazioso”): una sorta di rondò giocoso s’avvale del contrasto apparente fra un tema festoso e danzante e un’appassionata melodia con echi vagamente tzigani, ma particolare ed efficace si rivela la coda, ossia l’usuale “stretta” del pianoforte, caratterizzata da arpeggi, scalarità e successioni di irti e difficoltosi passaggi, pur se mai il virtuosismo fine a se stesso tende a prevalere sui contenuti espressivi.
Il pianismo di Buchbinder ha esaltato ai massimi livelli tali contenuti, poiché la sua interpretazione è senza età, quasi di là dal tempo: come lo si intendeva negli anni settanta dello scorso secolo, giovane ma sommo esegeta del classicismo viennese, così immutabile è ancor oggi, nella piena aderenza al linguaggio brahmsiano e nella capacità di emozionare e coinvolgere l’uditorio. Attenta, coerente e “rispettosa” dei valori musicali ed esecutivi s’è rivelata la performance direttoriale di Louis Langrée, ma va menzionata altresì la sublime espressività del primo violoncello della perfetta orchestra ceciliana, Luigi Piovano, che ha conferito e donato agli squarci solistici del terzo movimento una tale cantabilità e dolcezza da assimilarli all’atto illocutivo di una voce umana interiorizzata. Conseguentemente il pubblico ha accomunato i tre interpreti in un caldo e passionale plauso e le ovazioni al solista austriaco si sono a lungo protratte.
Nella seconda parte si è potuto assistere ad un’ottima esecuzione di ciò che viene considerato il capolavoro assoluto di Brahms, la “Quarta Sinfonia”: un’immensa pagina sinfonica, forse la naturale conclusione del genere in senso classico, prima che i grandi sinfonisti del Novecento ne snaturassero forma e sostanza. Composta fra il 1884 e il 1885, già nel primo movimento (“Allegro non troppo”) mostra la fase terminale della dialettica tematica, nel senso che quella penetrante melodicità, espressa ex abupto dai violini, s’impone quasi a livello episodico, fino a contrapporsi con un incessante fluire di gemmazioni motiviche, poi riproporsi al termine del processo espositivo e, di seguito, prestarsi a complessi sviluppi, intrecciandosi con le altre enunciazioni e arricchendosi nella coda finale di ampie e fastose sonorità.
Similmente i due tempi centrali (“Andante moderato” e “Allegro giocoso”) si fondano su tale principio monotematico, pur avvalendosi di tematismi derivati e di contorno, quali residui dialettici della forma-sonata, pur se nel terzo, vagamente assimilabile, almeno nello spirito, ad uno “Scherzo” (ma in rimo binario), emergono e si evidenziano artifici contrappuntistici di notevole complessità, che preludono a quanto si concreterà nel movimento finale. “L’allegro energico e passionato”, infatti, rappresenta una summa della già citata concezione brahmsiana, espressa nella definizione schönberghiana della variazione di sviluppo: un breve tema, di solo otto battute, che rammenta un possibile riferimento ad una remota “Passacaglia”, si snoda e si evolve lungo il corso di ben trentasei variazioni (appunto), sempre intessute e connesse fra loro.
Tutta la poetica del grande compositore amburghese si disvela in questo grandioso finale: i caratteri, ora appassionati, ora popolareschi, ora bucolici, ora idilliaci e ora struggenti, si alternano e si susseguono senza posa, sempre sorretti da una straordinaria abilità nel linguaggio lineare, nelle disposizioni polivoche e nel superbo trattamento strumentale. Quel genere sinfonico, quella forma e quella sostanza venivano allora quasi suggellati: nel presente possono ancora mostrare e rappresentare l’essenza della musica pura, se una grande orchestra, abilmente diretta, ne interpreta lo spirito e gli intimi contenuti. Consapevolmente il pubblico ha recepito il messaggio, tributando scroscianti e prolungati applausi al direttore e a tutti i professori della compagine ceciliana.
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