Parco della Musica, Prigionia e Liberta’ nell’ispirazione del concerto magistralmente diretto da Sir Pappano
(di Sergio Prodigo) Nell’atteso e celebrato giorno dei quattro Papi e delle santificazioni, domenica 27 aprile, un eccezionale evento artistico all’Auditorium del Parco della Musica: Sir Antonio Pappano, alla guida dell’Orchestra e del Coro dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, ha magicamente inventato e magistralmente interpretato una narrazione musicale sui temi della Prigionia e della Libertà, sia nello spirito commemorativo e nell’ideale significato del nostro 25 aprile sia nella concretezza della lotta per i diritti umani (il concerto è stato dedicato ad Amnesty International).
Contenuti e motivazioni delle scelte musicali operate Pappano le ha illustrato inizialmente, rivolgendosi direttamente al Presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano (lungamente applaudito dal pubblico al suo ingresso), e agli astanti: se «le composizioni sono lo specchio del nostro mondo» – secondo il suo pensiero e la sua intuizione –, i temi trattati trovano una logica concatenazione in una ininterrotta sequenza che ne ha tracciato una ideale linea temporale, dal “Fidelio” di Beethoven (la scena del carcere, dal secondo atto del Singspiel) al “Prigioniero” di Luigi Dallapiccola, pervenendo infine agli ultimi due movimenti della “Nona” beethoveniana ossia alla possibile «soluzione» “gioiosa” dei «temi della guerra, della lotta, della tortura, dell’ingiustizia e della libertà».
Può la sola musica adempiere tale compito? Certo, se la si concepisce – appunto – come narrazione o come rappresentazione del mondo, di là dalle connessioni con l’idealismo filosofico (che tanti guasti poi apportò con devianze e travisamenti) e di là dalla retorica espressiva. Nella sua menzionata intuizione Pappano ha “costruito” una razionale e costante architettura sonora, fondendo in un’unica scena sinfonica tre diversi stati e stadi del pensiero e della creatività musicale, annullandone le barriere temporali e le diversificazioni stilistiche. Non poteva – in tale ambitus – che concepire un continuum del silenzio, inteso come astrazione spaziale ovvero come espressio-ne di quella “armonia delle sfere” nella quale alberga solo il suono trascendente e la sua immanente risonanza: nella realtà del momento quasi cento minuti di magica sospensione dal reale e di profonda immersione nell’immaginario.
In primis l’Aria di Florestano, tratta dalla sofferta e unica pièce teatrale di Beethoven: le tematiche romantiche e gli echi rivoluzionari vi si compenetrano e si fondono nella drammaticità di un linguaggio musicale che s’avvale di aspre successioni accordali, evocative della costrizione e della privazione della libertà, e di limpidi e nobili tematismi, quasi simboli della speranza e del trionfo della giustizia. Tuttavia, alla fine dell’ampio monologo, gli archi in sequenze digradanti ne scandiscono l’apparente infausto epilogo: Florestano si accascia svenuto e nell’opera dovrebbe comparire la salvifica figura di Leonora, ma nella subitanea traslazione temporale s’avanza invece la “Madre”. È il “Prologo” dell’atto unico “Il prigioniero”, un lavoro teatrale che Dallapiccola progettò negli anni tragici dell’occupazione nazista a Firenze, ispirandosi a “La torture par l’espérance” di Auguste de Villiers de l’Isle Adam e alla “Légende d’Ulenspiegel et de Lamme Goedzak” di Charles de Coster, ambientata nei tempi bui della Santa Inquisizione spagnola e della rivolta delle Fiandre contro Filippo II.
Il compositore istriano aveva già espresso e illustrato, soprattutto nei “Canti di prigionia”, scritti nel 1938, i valori della libertà e le ombre nefaste della persecuzione, ma in tale opera, elaborata nella stesura sia del testo sia della musica fra il 1944 e il 1948 (eseguita in forma di oratorio a Torino nel 1949 e poi rappresentata l’anno successivo al Comunale di Firenze, sempre con la direzione di Hermann Scherchen), si sovrappongono altre tematiche esistenziali, come i sensi dell’angoscia e della speranza, che s’alternano in tragica successione fino a quel citato infausto epilogo non più apparente ma reale. È il breve squarcio episodico di un condannato al rogo, che intravede prima un’illusoria libertà, forse per l’inganno dell’Inquisitore in veste di carceriere, poi affronta quasi inebetito un destino di morte.
Certamente il linguaggio dallapiccoliano appare, ancor oggi, complesso e di difficile assimilazione, forse alla luce delle riconversioni tonali della musica contemporanea, ma quella sua dodecafonia, già in quel periodo considerata quasi vetusta, si rivela non tanto una tecnica compositiva quanto un modus operandi in grado di abbinare al rigore seriale l’interiorità di scelte espressive legate alla grande tradizione contrappuntistica. La fusione tra musica e dramma si compie (e si è intesa) mirabilmente, attraverso l’uso di materiali multiformi, che travalicano le dissonanze o le tortuose linee melodiche, sorrette e chiarificate dalle cangianti timbricità del tessuto orchestrale, infino alla dissolvenza accordale: lì si è innestato per gemmazione il “terzo movimento” della “Nona” di Beethoven.
Il perché di tale scelta nel contesto programmatico – è, tra l’altro, inconsueto o, forse, desueto proporre tempi staccati di sinfonie, ma si rinverdisce una nobile tradizione – è da connettersi ad una necessaria pausa meditativa che, nello specifico, potesse lenire la sofferenza emotiva dell’opera, riannodando i fili della speranza. Così s’è avvertito nell’intenso “Adagio” beethoveniano, in virtù delle cangianti variazioni motiviche ma, soprattutto, di quel tema sublime, intonato all’unisono dai violini secondi e dalle viole sul lieve impasto dei legni scuri: il tema del passaggio dall’angoscia al miraggio o all’illusione del bene, attraverso l’affratellamento nella gioia. Così il naturale “Finale” corale ha dispiegato appieno la sua forza evocativa, conferendo segno, significato e motivazione all’assunto prescelto, poiché nell’inno schilleriano “Freude” (Gioia) si assimila, si coniuga e si fonde con “Freiheit” (Libertà).
Irripetibile, pertanto, una manifestazione concertistica di tale levatura e caratura artistica, ideata e magistralmente parafrasata da Antonio Pappano: magnifica – come sempre – s’è rilevata l’esecuzione da parte sia dell’orchestra sia del coro, che forse hanno in taluni momenti soverchiato il pur alto livello dei solisti. Alla buona prestazione del tenore Stuart Skelton nell’Aria di Florestano è seguita un’eccellente performance del soprano Angeles Blancas Gulin nel ruolo della “Madre” nel “Prigioniero”, sempre emotivamente intensa e vocalmente perfetta nell’espressione delle complesse sequenze melodiche. Oltre le ottime prove palesate dal tenore Carlo Putelli e del baritono Antonio Pirozzi (artisti del Coro dell’Accademia), nell’opera di Dallapiccola ugualmente convincenti sono apparse le interpretazioni del baritono Louis Otey (il prigioniero) e, nuovamente, del tenore Stuart Skelton (il carceriere e l’Inquisitore), impegnati fino allo spasimo nella difficoltosa trasposizione drammaturgica dei personaggi; di contro, nel quartetto vocale della “Nona”, insieme con il soprano Rachel Willis-Sørensen e il mezzosoprano Andrea Baker, non hanno potuto (comprensibilmente) mantenere il medesimo standard esecutivo.
Grande e comprensibile l’entusiasmo del pubblico al termine del concerto: ovazioni per tutti gli interpreti, per i professori dell’orchestra e per gli artisti del coro e reiterate chiamate, soprattutto e logicamente, per Pappano e per il direttore del coro, Ciro Visco.
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