Accademia S. Cecilia, di scena il magistrale violoncellista Mario Brunello. Dalle decadenti atmosfere viennesi alla più alta letteratura musicale russa
di Sergio Prodigo
Un grande violoncellista di scena, sabato 24 maggio, all’Auditorium del Parco della Musica nell’ambito dei concerti ceciliani, Mario Brunello, che nel lontano 1986 fu il primo musicista italiano a vincere il prestigioso Concorso Čajkovskij di Mosca: con l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia (reduce dalla trionfale tournée inglese con Antonio Pappano), diretta da Manfred Honeck, ha eseguito una rara, preziosa e intensa pagina del suo sconfinato repertorio, il Concerto per violoncello e orchestra in do minore op. 66 di Nikolaj Mjaskovskij.
In apertura, tuttavia, un brano all’insegna della leggerezza e della divagazione, il “Valzer” op. 410 di Johann Strauss Jr. “Voci di primavera”, magnificamente diretto dal raffinato direttore austriaco che già s’intese e si ammirò in gennaio nel concerto per il nuovo anno: di seguito, due diversi momenti della letteratura musicale russa, il problematico Novecento “storicizzato” di Mjaskovskij e il passionale Tardoromanticismo di Čajkovskij, raffigurato nella “Sinfonia n. 5”.
Certamente l’ascolto di uno dei valzer più conosciuti dell’epopea straussiana non evoca particolari suggestioni, se non le sfocate atmosfere del fin de siècle viennese, ossia di un’epoca che inconsapevolmente s’avviava verso il suo declino, ma che si crogiolava o celava ogni possibile contraddizione in quel genere musicale “apparentemente” leggero, pur se la levità e la leggiadria dei temi, le solide e rassicuranti armonie e le sgargianti vesti orchestrali erano e sono sempre indice e contrassegno di geniale inventiva.
Di contro, la controversa estetica della musica sovietica, connessa a quel problematico realismo imposto dalla Nomenklatura negli anni Quaranta-Cinquanta dello scorso secolo, s’è ampiamente palesata sin dalle prime battute del “Concerto” per violoncello di Mjaskovskij, un compositore raramente inserito nelle programmazioni sinfoniche (pur se scrisse ben ventisette sinfonie!). In effetti, quel tonalismo indubbio, avvertito sovente come una gabbia, si tinge sin dall’ampia melodia iniziale del primo movimento del “Concerto” (“Lento ma non troppo”) d’una mestizia incommensurabile, resa tale anche dal particolare timbro del fagotto; dipoi il violoncello solista ne eredita l’andamento e un caratterizzante elemento elegiaco sembra prevalere secondo canoni tradizionali di sviluppo, associati a intensi monologhi sempre avulsi da intenti cadenzali, fino a riproporre nel finale la sofferta tematicità iniziale. Diverso si rivela il secondo movimento (“Allegro vivace”), più dinamico e incisivo, strutturato idealmente come una sorta di rondò, per il ritorno costante di un’idea motivica quasi danzante o ritmicamente scandita a guisa di “salterello”, alternata a due diverse espressioni tematiche; un lungo episodio di transizione e una virtuosistica cadenza preparano il ritorno ciclico del tema introduttivo del “Concerto”, riproposto da archi e legni.
Dopo tale citazione, il violoncello riannoda le fila della mesta trama iniziale, scemandone l’intrico in una sorta di sfumata e dolce dissolvenza.
Vibrante e toccante s’è rivelata l’interpretazione offerta da Mario Brunello, quasi avesse voluto rappresentare la stessa drammaticità esistenziale alla base della genesi compositiva del brano o, meglio, disvelarne i contenuti testuali di là dalla indubbia e palese perfezione esecutiva. Sono, infatti, i rari casi in cui proprio l’interprete funge quasi da demiurgo, ossia “ricrea” l’opera immedesimandosi nell’autore, specie se si tratta di un’opera inedita o proposta – nello specifico – per la prima volta nel contesto dei concerti ceciliani. Così è accaduto, come per una magia che il pubblico ha condiviso e lungamente applaudito.
Se, invece, si ascolta un noto capolavoro, come la “Sinfonia n. 5” in minore op. 64 di Čajkovskij, allora se ne recepisce semplicemente la proposizione o la riproposizione nella fattispecie del confronto o del raffronto con altri ascolti o con altre esecuzioni, traendone sì il relativo piacere dall’atto performativo in sé ma anche il conseguente giudizio. Del resto, si trattava della più passionale fra le sei “sinfonie” del compositore russo, l’unica (insieme alla “Quarta”, dominata però dalla fatalità e dal destino ineluttabile) a non recare un sottotitolo esplicativo o programmatico (rispetto alla “Prima” – “Sogni d’inverno” -, alla “Seconda” – “Piccola Russia” –, alla “Terza” – “Polacca” – e alla “Sesta” – “Patetica”). L’unicità della “Quinta” è forse legata al quel tema iniziale del primo movimento (“Andante. Allegro con anima”) che, in certo qual senso, condiziona l’intera composizione, riproponendosi negli altri tempi ma non nello spirito o nella concezione delle precedenti strutture cicliche lisztiane.
Quel tema, appunto, tende a configurarsi come un fil rouge, ossia quel che una volta (ma in altri contesti) si definiva come “tema conduttore”, poiché in tale ambito “conduce” letteralmente la trama musicale, attraverso momenti di diversa intenzionalità espressiva. Così, nel prosieguo dello stesso movimento iniziale si sviluppa drammaticamente, mutandosi in un veloce e scandito incedere motivico di reminiscenza schumanniana; nel secondo tempo (“Andante cantabile con alcuna licenza”) si inserisce sia nel mezzo di tematismi elegiaci e appassionati di incomparabile soavità sia nell’inattesa conclusione. Sembrerebbe, di seguito, quasi incompatibile con il melanconico, seppur aggraziato “valzer” del terzo movimento (“Allegro moderato”): eppure, in coda fugacemente riappare, mascherato e venato di cupa timbricità. Poi esplode nel “Finale” (“Andante maestoso. Allegro vivace”): già nella parte iniziale si presenta nella sua veste “maggiore”, ma, dopo una complessa sezione centrale, caratterizzata da due temi, l’uno accordale e l’altro marziale e, dopo il loro conseguente sviluppo, tronfio e pomposo, si ripropone in una “coda”, oggetto di poco benevoli commenti da parte di critici coevi e, forse, non pienamente condivisa dallo stesso Čajkovskij (ma il “destino” della sua musica e della sua esistenza si compiva, come nel “Finale” della “Quarta”, anche per meditate e consapevoli scelte estetiche).
Come s’era dianzi accennato, tale proposizione non si sottrae, né si è sottratta, al giudizio degli astanti: entusiastico, a giudicare dalla messe di applausi e ovazioni. Del resto, la direzione di Honeck è apparsa vigorosa ed estremamente incisiva, poiché tesa a interpretare pienamente il diverso spirito e i diversi contenuti dei brani egregiamente eseguiti dalla sempre magnifica orchestra ceciliana. Tuttavia, in Čajkovskij il direttore ne ha vieppiù reso con ardore e veemenza lo spirito, fornendone una lettura attenta e meditata, ma lasciando anche agli strumentisti la possibilità e la libertà di esprimersi ai migliori livelli possibili.
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