Accademia S.Cecilia, Grande Musica nel segno del Jazz sinfonico per la chiusura della stagione
(di Sergio Prodigo) Il concerto di chiusura della stagione sinfonica ufficiale dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia si è svolto, sabato 14 giugno (con le abituali repliche del lunedì e del martedì) all’Auditorium del Parco della Musica, all’insegna di ciò che potremmo definire come eccelsa versatilità da parte delle compagini corali e orchestrali, secondo le accezioni artistiche della duttilità o della polivalenza, negli atti performativi di una particolare o “diversa” tipologia di repertorio.
Il jazz, nello specifico, o – meglio – la grande tradizione del jazz sinfonico: nella prima parte del concerto è stata eseguita una suggestiva selezione dei “Sacred concerts” di Duke Ellington, che ha visto protagonisti il Coro dell’Accademia, la fantastica Jazz Orchestra “PMJO Parco della Musica” e la splendida voce di Petra Magoni, diretti da Wayne Marshall, noto ed estroso pianista, organista e direttore d’orchestra americano; nella seconda parte è stata proposta l’esecuzione della complessa e articolata “Swing Symphony” (Sinfonia n. 3), scritta nel 2010 dal trombettista e compositore americano Wynton Marsalis e magicamente interpretata dall’ampio organico dell’Orchestra ceciliana e dalla citata Jazz Orchestra, sempre diretti da Wayne Marshall.
Non è agevole – per chi scrive – commentare contenuti o illustrare esegesi di brani appartenenti ad una difforme estetica musicale, avulsa, come nel caso della variegata produzione di Ellington, dagli stilemi delle avanguardie europee ed extraeuropee degli anni sessanta (dello scorso secolo). Ugualmente appare, almeno nel controverso contesto contemporaneo, collocare o definire il linguaggio di Marsalis, doverosamente ispirato a quella medesima tradizione jazzistica, pur diversamente configurata in uno sgargiante e rutilante ambito sinfonico. Il rischio o l’incognita – sempre presenti – potrebbero configurarsi nella forzosa adozione di parametri desunti da un pensiero classico che non contempli devianze e che si avvalga di categorie di giudizio inamovibili, in quanto legate a concezioni settoriali o elitarie dello stesso divenire musicale.
Invece, il preconcetto in arte può rilevare solo albagia o pretestuosa accidia mentale: la musica, nella sua più autentica accezione, è una sommatoria di arti, ossia – specie nella contemporaneità – si manifesta in poliedriche sembianze e la sua valenza o polivalenza risiede o si esprime essenzialmente nell’autenticità del linguaggio e dell’eventuale messaggio.
Così intendere – come si è inteso – l’intensa e musiva “It’s Freedom”, nerbo pulsante del “Second Sacred Concert” di Ellington, ha reso possibile fugare ogni pregiudizio su quei contenuti estetici che, nello specifico, appaiono – e sono apparsi – densi e intrisi di profonda significazione e massimamente doviziosi di espressività e di immutabile incanto, di là anche sia dalla connaturata religiosità laica sia dalle grandi tematiche espresse e rappresentate in quella particolare contestualità (le libertà morali, la lotta al razzismo e i germi della contestazione marcusiana).
Grande Musica, specie in taluni momenti, poiché vivificata ed esaltata da eccellenti e irripetibili interpretazioni: prima di tutto – non senza partigianeria – il Coro ceciliano, magistralmente “preparato” da Ciro Visco, ha dato incommensurabile prova di quella versatilità inizialmente citata, rasentando sempre la perfezione esecutiva. Straordinaria è apparsa la voce di Petra Magoni, soprattutto nel finale “Ain’t but the One”, mentre la strepitosa Jazz Orchestra ha avuto modo di esprimersi sempre ad alti livelli, sia come ensemble sia come individualità solistiche, fra le quali va menzionata la magnifica performance (anche nella seconda parte del concerto) del trombettista Fabrizio Mosso.
La seconda parte, appunto: interamente dedicata all’ampio lavoro sinfonico di Marsalis, ha visto ancora come protagonista la Jazz Orchestra ma fusa e integrata nella compagine orchestrale di Santa Cecilia. La complessa “Sinfonia” del versatile e talentuoso compositore statunitense (tra l’altro direttore del dipartimento jazz della prestigiosa Juilliard School of Musica), interpretata nel 2010 in prima esecuzione dai Berliner Philharmoniker diretti da Simon Rattle, si articola in sei diversificati movimenti (Medium; Primitive – Charleston. Playful and urbane – Ambling. Kansas City Swing – Very fast Bebop – Fugueish – Pastoral, Downhome).
In pratica la “Swing” tende a rappresentare e delineare una sorta di percorso storico del jazz, attraverso le sue tappe più significative, illustrate con dovizia di spunti tematici, di aggregazioni multitimbriche e di cangianti variabilità ritmico-percussive. Il suo contesto musicale, tuttavia, non mostra cedimenti o concessioni alle evoluzioni semantiche e linguistiche dell’ultimo sessantennio, anzi tende a “recuperare”, se non ad avvalersi, di quella stessa tradizione, rivestendola di fusioni polistrumentali di indubbia efficacia (a volte volutamente chiassose) e sovente arricchite da sostrati paratonali.
L’ascolto s’è rivelato di assoluta gradevolezza, esercitando grande fascino sul pubblico, più volte spinto ad applaudire al termine dei vari movimenti, pur riservando infine possenti e reiterate ovazioni al direttore e all’intero rassemblement orchestrale. Merito indubbio e indiscusso degli interpreti tutti: a parte i magnifici solisti della Jazz Orchestra PMJO, va evidenziata in particolar modo la brillante e intensa esecuzione dell’Orchestra di Santa Cecilia in ogni suo reparto, poiché la stessa versatilità s’è coniugata con la perfezione tecnica. In tale ottica, non vanno sottaciuti, anzi evidenziati, la strabiliante valentia e i preziosi virtuosismi espressi dall’intera sezione delle percussioni.
Grande successo, quindi per questo concerto di chiusura della stagione ufficiale, in attesa di quella estiva (l’omaggio a Roma a fine giugno, il trittico della “Suite Čajkovskij” e le musiche di Morricone in luglio): il pubblico televisivo potrà apprezzarlo il 19 giugno alle 21:20 su RAI 5.
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