Padova, sospesa da lavoro per uno sfogo su Facebook: “I capi preferiscono le belle”
In Italia c’è libertà di parola, ma attenzione a come la si esprimere e soprattutto dove. Perché se si usa Facebook per esternare le proprie convinzioni, si può rischiare anche di perdere il lavoro. E’ quello che è successo ad una 33enne trevigiana, dipendente di una banca della città del Santo, costretta a lasciare il suo lavoro dopo essere stata sospesa per alcune affermazioni espresse tramite il noto social network. A metterla nei guai, una discussione intavolata con i suoi amici di internet su un tema che, inevitabilmente fa discutere e suscita polemiche: «I capi preferiscono le belle», ossia: i datori di lavoro, nei colloqui, si lasciano ammaliare più dalla bellezza che dalle competenze. Nulla di strano in effetti, l’argomento è spesso dibattuto. Sia che si parli dell’assunzione di un’impiegata in un ufficio o della nomina a capo di un ministero. Ne sanno qualcosa l’ex ministro Mara Carfagna o l’attuale ministro Maria Elena Boschi giudicate spesso più per la bellezza che per le reali capacità di svolgere il ruolo al quale sono chiamate. Ma l’averne parlato apertamente su Facebook è costato caro alla 33enne che nel giro di poche settimane si è ritrovata prima sospesa e poi costretta a lasciare il suo posto.
Il post che l’ha messa nei guai, risale al 20 agosto scorso, quando ha scritto sul suo profilo: «Ha un nome la patologia di certi uomini che fanno i responsabili del personale e fanno colloqui solo a ragazzine di 19 anni con il fisico da modella e gli occhioni da cerbiatta?», seguito un paio di giorni dopo da un altro commento: «Gli uomini sono fatti così: se sei bella per loro sei bravissima, hai valore e sei piena di meriti. Punto. E poi stiamo qui a parlare di donne e meritocrazia. Se le donne oggi fossero al mio posto a vedere e sentire quello che vedo/ sento io forse aprirebbero gli occhi…». Frasi, condivisibili o meno, che hanno suscitato una schiera di commenti da parte dei contatti della 33enne. Un commento generico, senza riferimenti precisi a situazioni o persone in particolare, per affrontare un tema caro alla donna impegnata nell’associazionismo per le pari opportunità. Eppure, tra i dirigenti della bancaria, c’è stato qualcuno che si è sentito chiamato in causa. Un superiore dell’istituto di credito per il quale la donna lavorava, che proprio in quei giorni aveva fatto un colloquio a una giovane neodiplomata. La 33enne, a dire il vero, non aveva fatto nessun riferimento a tale situazione e ai più quelle frasi non sono sembrate altro che un commento generale, a un modus operandi tipico di alcuni uomini che rivestono ruoli e incarichi di potere. Ma per il dirigente, quel messaggio era rivolto proprio a lui e la sua reazione non si è fatta attendere. Rapida quanto pesantissima. All’impiegata è infatti arrivata una lettera di richiamo con la comunicazione della misura disciplinare scelta dalla banca per «punire» tale comportamento, e cioè la sospensione di 5 giorni dal lavoro. La 33enne sarebbe anche stata subito convocata nell’ufficio del superiore che, dopo averla richiamata personalmente, l’avrebbe accompagnata alla porta facendole anche subire l’umiliazione di essere di fatto, sbattuta fuori dal suo ufficio, davanti ai colleghi. Una situazione di grande disagio e rammarico per la 33enne che si è rivolta ad un legale affinché discutesse con la banca un accordo bonario in seguito al quale ha rassegnato le dimissioni. Impossibile infatti per lei, continuare a lavorare in un ambiente di lavoro nel quale i rapporti sono stati inevitabilmente compromessi.
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