Lotta al terrorismo, Londra dice Sì ai bombardamenti in Iraq contro l’Isis. Cameron: “I raid potrebbero durare anni”
Ben 524 parlamentari favorevoli e 43 contrari. Una maggioranza schiacciante di 481 voti. La Camera dei Comuni ha votato: anche il Regno Unito interverrà al fianco degli Stati Uniti, della Francia e di alcuni Paesi arabi per cercare di eradicare lo Stato Islamico, ma le forze inglesi interverranno per ora solo in Iraq. I deputati di Westminster, chiamati in assemblea d’urgenza dal premier conservatore David Cameron, hanno dato il loro parere favorevole. Già nelle prossime ore, scrive ora la quasi totalità dei giornali britannici, potrebbero partire quei raid tanto attesi e di cui si è parlato più insistentemente dopo la decapitazione (il cui video è diventato virale sui social media e sui media mondiali) dell’ostaggio scozzese David Haines e soprattutto mentre ancora non si sa quale sia la sorte dell’altro britannico nelle mani dei combattenti, Alan Henning, cooperante che è stato persino scagionato da un tribunale islamico che ha sentenziato sul suo destino. Ma quanto hanno detto giudici e leader islamici non ha avuto alcun effetto e, così, l’uomo si trova ancora nelle mani dei terroristi. I raid sono stati autorizzati come risposta, si legge nella mozione dell’esecutivo votata oggi, agli “atti barbari” dello Stato Islamico e su “specifica richiesta” delle autorità irachene.
Il Regno Unito quindi ha deciso, fra allerte per possibili attacchi sul suolo britannico e una politica che si è comunque spaccata, con Nigel Farage che, poche ore fa, ha bocciato l’ipotesi dei raid, e con persino un Financial Times, giornale della finanza “forte”, che ha sentenziato: “La politica e la diplomazia sono meglio delle bombe”. E con la Chiesa anglicana che, per bocca dell’arcivescovo di Canterbury, Justin Welby, ha dato un suo sofferto “Sì” agli attacchi mirati, “ma solo per un breve periodo”. Come a dire che le uccisioni e le morti fra la cittadinanza, sempre inevitabili in questi casi, stante la storia degli ultimi anni in Medio Oriente, vanno bene, purché non siano troppe. Chiaramente, ora, in Gran Bretagna si parla anche di politica: il Labour ha dato il suo sostegno al partito dei Tory, un supporto insperato fino a poche settimane fa, con il partito liberaldemocratico, alleato in coalizione di governo, che non l’ha mai messo in dubbio. Ma c’è, appunto, l’Ukip di Farage, in congresso annuale in queste ore nella campagna inglese. L’alleato di Beppe Grillo all’europarlamento è stato chiaro: “La Gran Bretagna sta avviando un’azione militare senza aver minimamente pensato alle conseguenze. Tutto quello che posso notare è che ci dicono che lo Stato Islamico ci stia prendendo in giro, sostengono che vogliano che andiamo lì li bombardiamo. Non penso che la strategia odierna sia quella giusta”. Certo, l’Ukip ha vinto alle scorse elezioni europee di maggio, nessun partito ha preso tanti voti nel Regno Unito come il movimento antieuropeista di Farage. Ma a Westminster l’Ukip non siede, non ancora, ecco che – fanno notare fra le righe giornali e telegiornali – il parere di Farage in queste ore conta veramente poco. Quasi nulla, nonostante la forte penetrazione nell’elettorato.
La stampa più schierata con il partito dei Tory, intanto, fa sapere che sei caccia Tornado sono già pronti a Cipro, nella base di Akrotiri, avendo anche già fatto dei voli di ricognizione sopra l’Iraq lo scorso mercoledì. Avviando il dibattito parlamentare, questa mattina, Cameron aveva detto che lo Stato Islamico “è una minaccia diretta alla Gran Bretagna, abbiamo il dovere morale di combatterlo”. Per ora sono esclusi attacchi in Siria, il presidente (da molti definito “dittatore”) Bashar al-Assad è ancora ambiguo su questo fronte, con tutta la serie di problemi (Is a parte) che ha in casa. Per ora è poi escluso un intervento di terra, ma Cameron stamane ha anche aggiunto: “I raid potrebbero durare anni”, come a dire ai britannici “preparatevi”. Serviranno soldi, e anche tanti, e il taglio alla Difesa di cui si è parlato nei mesi scorsi forse è proprio il caso di abbandonarlo, pare ora suggerire l’ammiratore di Margaret Thatcher.
“Il rischio è che la guerra arrivi nelle nostre strade”, ha poi detto il Cameron. E Londra in effetti nelle ultime settimane ha sudato, con un allarme bomba che ha bloccato il trafficatissimo aeroporto di Luton, mandando in tilt le rotte di mezza Europa, e un altro caso di allarme di massa con l’evacuazione, non molti giorni fa, del più grande centro commerciale d’Europa, il Westfield, nella zona olimpica di Stratford. L’allerta è alta, dicono le autorità a Londra. E un pensiero non può che correre agli attentati della metropolitana del 7 luglio 2005: ben 52 morti, 700 feriti gravi e decine di amputati. Più una città che ci ha messo anni a riprendersi, vedendosi sempre più blindata, piena di telecamere e spiata dall’intelligence.
Nelle ultime 48 ore, a Londra, si sono avuti anche 11 arresti, quasi tutti uomini, di mezza età. “Non costituivano una minaccia diretta”, ha poi detto Scotland Yard, “ma erano impegnati nel sostegno al terrorismo internazionale”. Le fonti più ottimistiche dicono che circa 500 jihadisti britannici stiano ora combattendo fra Siria e Iraq, ma c’è chi ipotizza che possano essere almeno il triplo. Tutte persone che, se non cadranno sul campo di battaglia, prima o poi torneranno in patria, spesso sotto il Big Ben (in quanto molti di essi provengono dal multiculturale e multietnico grande est londinese): e la sola idea di avere anni di spauracchi e allarmi, magari anche combattendo su più fronti all’estero, è la cosa che meno alletta il governo britannico in questi giorni. Da notare, infine, che, per ironia della sorte, l’ultima volta che il parlamento di Westminster fu richiamato d’urgenza fu il 29 agosto del 2013, per discutere di Siria e di armi chimiche nel Paese di Assad, per cercare chiaramente anche una soluzione militare. Lo stesso Assad che ora in molti vedono quasi come un alleato (o almeno a lui bisogna chiedere il permesso) nella lotta allo Stato Islamico. Quello che Sky News, con un calcolo preciso, oggi ha stabilito essere “il più potente e ricco gruppo terroristico di sempre”.
Anche Danimarca e Belgio hanno dato l’ok ai raid. La premier danese Helle Thorning-Schmidt ha riferito che il suo governo ha l’appoggio di una maggioranza in Parlamento per il dispiegamento di quattro aerei operativi e tre jet di riserva, insieme a 250 piloti e staff di sostegno. Il dispiegamento durerà 12 mesi. La premier ha aggiunto che è previsto un voto in Parlamento, considerato però una formalità. Tuttavia non sono state immediatamente previste delle date per la votazione. “Nessuno – ha dichiarato la premier – dovrebbe essere abbassare la testa in questo caso. Ognuno deve contribuire nella lotta”. Anche l’Olanda ha accettato di unirsi alla coalizione guidata dagli Stati Uniti in Iraq. Nessuno dei due Paesi ha in programma di dispiegare forze in Siria. La Danimarca ha già contribuito con un aereo da trasporto all’operazione umanitaria guidata dagli Stati Uniti nel nord dell’Iraq.
Il Belgio da parte sua invierà sei F-16. La partecipazione belga è stata approvata dalla Camera dei rappresentanti dopo più di tre ore di dibattito con 114 voti favorevoli e 2 contrari. “Dobbiamo lottare contro la tortura, contro le decapitazioni, quindi è tempo di agire”, ha commentato un parlamentare belga Veli Yuksel, democristiano fiammingo. Il Belgio invierà sei aerei da combattimento per un’operazione che durerà un mese. Un coinvolgimento più prolungato sarà oggetto di una valutazione e revisione parlamentare. Il contingente militare belga consterà di 120 persone, tra cui otto piloti.
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