Omicidio di Garlasco, Stasi condannato a sedici anni. I genitori di Chiara: “Non abbiamo mai mollato, ora è arrivata la verità per nostra figlia”
Colpevole, per la prima volta. È Alberto Stasi, per i giudici milanesi dell’appello ‘bis’, l’assassino della fidanzata Chiara Poggi, uccisa nella villetta di via Pascoli a Garlasco (Pavia) il 13 agosto 2007. Già assolto in due gradi di giudizio con sentenze poi annullate dalla Cassazione, oggi per l’imputato – da sempre sospettato numero uno dell’inchiesta – è arrivata la condanna a 16 anni di carcere. Accolta in parte la tesi dell’accusa: esclusa l’aggravante di aver ucciso Chiara “con crudeltà”, la richiesta di condanna a 30 anni viene di fatto dimezzata.
A più di sette anni dal delitto, mamma Rita e papà Giuseppe possono abbracciarsi e commuoversi per una giustizia inseguita da sempre: “non abbiamo mai mollato, ora è arrivata la verità per nostra figlia, posso dirle ‘ce l’hai fatta’”, le poche parole della donna mischiate a qualche lacrima. “Sono sconvolto” il commento di Alberto che, per la prima volta, aveva deciso di rilasciare dichiarazioni spontanee in aula: “non cercate a tutti i costi un colpevole – ha detto rivolto ai giudici – condannando un innocente”.
Dopo 14 udienze, la sentenza dei giudici (due togati e sei popolari) della prima sezione della Corte d’Assise d’Appello inverte la ‘rotta’ giudiziaria e accoglie il monito della Cassazione: occorre una valutazione “complessiva e unitaria degli elementi acquisiti”, una lettura di insieme per arrivare all’unica verità possibile. Un processo indiziario dove il rito abbreviato non accorcia i tempi della giustizia – diverse le perizie richieste dalla corte, le memorie e le indagini di parte – ma dove i nuovi elementi raccolti restituiscono un quadro di indizi gravi, precisi e concordanti. È lui a colpire Chiara alla testa, a trascinarla e gettarla lungo le scale che conducono nel seminterrato.
È la ‘camminata sperimentale’ – estesa ai primi due gradini della scala calpestati da Alberto prima di trovare la vittima – a segnare il punto decisivo per l’accusa. La nuova perizia porta ad escludere, quasi matematicamente, la possibilità per Stasi di attraversare il pavimento imbrattato di sangue senza sporcarsi le Lacoste. Per gli esperti è da escludere che il sangue secco, una volta pestato, si sia disperso. Un esperimento effettuato sui tappetini della Golf nera – l’auto che Stasi usa per raggiungere la stazione dei carabinieri – certifica che qualche traccia di sangue doveva restare. Inoltre, l’impronta della scarpa a pallini lasciata da chi ha colpito a morte Chiara è un numero 42, lo stesso di Alberto.
Niente tracce di estranei nella villetta, nessuna ombra nella vita di Chiara e nel racconto di Alberto “continue omissioni” per ostacolare le indagini: una voce in sottofondo svela che l’allora laureando conclude la telefonata al 118 quando è già davanti ai carabinieri di Garlasco e non davanti alla villetta come racconta, nelle sue dichiarazioni non dice di avere una bicicletta nera, non convince la descrizione del volto “pallido” della vittima coperto di sangue all’arrivo dei soccorritori.
E i sospetti si concentrano anche su quella bici nera vista davanti alla villetta di via Pascoli in un orario compatibile con il delitto: troppo ‘puliti’ quei pedali, mentre la traccia del Dna della vittima su un pedale della bici bordeaux di Alberto sembra rendere credibile quella inversione dei pedali tra le due biciclette sostenuta in aula dalla parte civile.
Non solo: questa volta, contro Alberto, c’è la testimonianza di due carabinieri che parlano di due piccoli graffi visti sul suo avambraccio il giorno dell’omicidio, mentre le sue impronte miste al Dna della vittima restano impresse sul dispenser del portasapone del bagno dove si lava l’assassino. Forse avevano litigato Alberto e Chiara la sera prima dell’omicidio, forse quelle foto pornografiche catalogate nel computer del ragazzo hanno fatto scattare un diverbio. Un movente su cui come l’arma, probabilmente un martello, restano dei dubbi in una storia che ha visto più di qualche errore degli investigatori.
Contro l’imputato, però, c’è anche una finestra temporale di 23 minuti – dalle 9.12 alle 9.35 – il tempo sufficiente per far dire ai giudici che è lui il colpevole. È lui che Chiara apre la porta, è lui che l’aggredisce e la colpisce alla testa, prima di trascinarla sul pavimento e gettarla lungo le scale della villetta al civico 8. Indizi che oggi sembrano acquisire il grado di prove, ma per mettere la parola fine a questo caso bisognerà attendere ancora una volta la Cassazione.
La parola colpevole deve continuare a essere accompagnata da presunto fino a quando i giudici della Cassazione non emetteranno un nuovo verdetto, ma prima bisognerà leggere le motivazioni di questa decisione che verranno depositate entro 90 giorni. Se la difesa si prepara a ricorrere contro il verdetto, Gian Luigi Tizzoni avvocato di parte civile della famiglia Poggi, non trattiene la soddisfazione: “Volevamo la verità, oggi abbiamo avuto risposte”.
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