E’ morto Pino Daniele. Il bluesman partenopeo colpito da un infarto nella notte. A Napoli proclamato il lutto cittadino
È morto Pino Daniele. Napoli è attonita, silenziosa, si sveglia di notte: telefonini, radio, televisioni rilanciano la notizia, sperando di aver preso un granchio.
Napule è il silenzio della ricerca febbrile della conferma. Ma è vero? Il cellulare del musicista suona senza che nessuno risponda, quello dei suoi familiari e collaboratori pure. Poi la notizia drammatica trova conferma nelle parole sconvolte del figlio Alessandro, della figlia Sara, del manager Ferdinando Salzano, che era stato fino a ieri con lui sulle nevi di Courmayeur, dove il Nero a metà che non c’è più si era esibito per l’ultima volta, in diretta su Raiuno nella notte di Capodanno.
Il bluesman era a Magliano, in Toscana, suo buon retiro, con la figlia Cristina, in famiglia. Ha avuto un infarto nella notte, inutile la corsa all’ospedale più vicino. Brutto anno, orrendo, quello che si apre così, era successo con Gaber e con De André, Napoli perplessa e attonita al nunzio sta.
Il cantautore che l’ha saputa cantare e incantare come nessuno mai prima, se n’è andato nella notte tra il 4 e 5 gennaio, tradito dal suo cuore matto: era il suo punto debole, «’O saie comme fa ‘o core», aveva scritto con l’amico Massimo Troisi, con cui divideva la malattia cardiaca, ora il destino. Era felice Pino nei giorni scorsi, il tour di «Nero a metà» – l’abbiamo salutato, è difficile scrivere «per l’ultima volta», al Palapartenope, il 16 e 17 dicembre scorso, con la superband e i lazzari felici che si erano uniti a lui – gli aveva suggerito progetti, come un festival del mediterraneo, nella sua città, ponte ideale verso mille mondi di «mille culure». Non li vedremo mai quei progetti, non li compirà mai quei sessant’anni che si preparava già a festeggiare il 19 marzo.
Non lo vedremo più, continueremo ad ascoltarlo, nelle prossime ore come una mantra che non avremmo mai voluto incontrare sulla nostra strada, quello dell’assenza che è un assedio. Il profluvio di messaggi nella notte, notte nera, funesta, di cattivi pensieri, dice quanto e come lo portassimo dentro tutti quel ragazzo del centro storico, cresciuto con le zie perché i genitori non ce la facevano a sfamare tante bocche, quell’americano di una Napoli che voleva cambiare, che sognava di essere Elvis Presley, Bob Dylan, Eric Clapton. Il suo primo gruppo si chiamò Batracomiomachia, poi nel ’75 Daniele incontrò il nero a metà originale, Mario Musella, voce degli Showmen, prestando la sua chitarra a un brano rimasto inedito fino al 2012. Poi impugnò il basso in tour con Bobby Solo e un giorno si presentò a James Senese, nero fuori, napoletano verace, ormai ex Showmen e alla testa dei Napoli Centrale: «Ciao, sono Giuseppe Daniele, mi piace la musica che fai, te vulesse incuntra’». I due si incontrarono, divennero «brothers in soul», inseparabili, veracissimi, americanissimi.
La canzone d’autore italiana era tutta testo e militanza, il Pino della nuova Napoli aggiunse ritmo, blues, funky, senza dimenticare di dar voce a una città senza voce. L’esordio nel 1976 era apparentemente scanzonato: «Che calore» demoliva il mito della bella giornata, era il riso amaro di un ex scugnizzo cresciuto nella città del sole che non scaldava più. «Terra mia», fatidico anno 1977, mostrò le radici e spiegò le ali, unì i mandolini e le chitarre elettriche, uccise l’oleografia: «Napule è ‘na carta sporca e nisciuno se ne’mporta e ognuno aspetta ‘a sciorta». La voce di dentro di Partenope aveva visto «Le mani sulla città», era scesa in corteo con i ragazzi della nuova sinistra Napoli la conosce tutto il mondo, ma non sa la verità, spiegava. Napule è mille culure, mille dulure, mille paure. Napule è il canto dei bambini, che sale piano piano, e tu sai che non sei solo. Renzo Arbore si accorse subito del suo talento, suonando «’Na tazzulella ‘a caffè» ad «Alto gradimento», Renato Salvetti pure, portandolo subito al «Festivalbar».
Napoli non era una tazzulella ‘e caffè, non era la retorica spicciola dei suoi logori simboli, ma la città dove persino la bevanda degli dei diveniva oppio per un popolo senza futuro. Il diciottenne che aveva scritto «Napule è» cresceva saldando intorno a sè una generazione di maestri della nuova musica napoletana, e quindi italiana: con lui e con James, c’erano Tullio De Piscopo, Tony Esposito, Rino Zurzolo, Joe Amoruso, Ernesto Vitolo, Gigi De Rienzo e tanti altri. Lo chiamarono «neapolitan power», era la risposta del ghetto partenopeo al ghetto nero, era orgoglio di una minoranza che aveva deciso di farsi sentire. Album capolavoro cambiano la faccia della canzone italiana, iniettandola di ritmi americani e poesia vesuviana: «Pino Daniele» (1979) «Nero a metà» (1980), «Vai mo’» (1981).
Il 19 settembre 1981 il primo sindaco comunista di Napoli, Maurizio Valenzi, lo chiamò in piazza del Plebiscito: fu la consacrazione, centomila persone in piazza, il sogno di un rinascimento e di una primavera troppo veloce, troppo breve. Le strade del blues, del funky, del soul, del jazz, portarono al golfo, si bagnarono nelle sue correnti, la tarantella incontrò le dodici battute della musica del diavolo, «tarumbò» la chiamò Pinotto. Ma il successo brucia, il dream team si ruppe, le strade dei solisti del potere napoletan si divisero tra liti e ambizioni personali, i lazzari felici si riuniranno solo trent’anni dopo. Ora non potrà succedere più. Al suono verace degli ex «fratelli»» che se ne erano andati Daniele rispose con il suono internazionale di uno stuolo di collaborazioni di prestigio. «Bella ‘mbriana» (1982) riscoprì le tradizioni di casa e sfoggiò al sax Wayne Shorter ed al basso Alphonso Johnson, pezzi pregiati dei Weather Report.
In «Bonne soiré» (’87) arrivarono Mel Collins, Jerry Marotta, Mino Cinelu, Pino Palladino. Voce inimitabile, acutissima, ma anche chitarra affilata, risposta mediterranea a Carlos Santana, Pino nel 1989 girò l’Europa con il supertour di virtuosi rock «The night of the guitar», in Campania lo vedemmo allo stadio di Salerno, con Randy California, Steve Hunter, Robby Krieger, Phil Manzanera, Leslie West e altre leggende viventi. Intanto, disco dopo disco, registrava perle come «Musicante» (’84), «Ferryboat» (’85), «Schizzichea with love» (’88), «Mascalzone latino» (’89), «Un uomo in blues» (1991), «Sotto ‘o sole», titoli fondamentali della sua discografia come di quella del pop rock italiano tout court. La salute però gli dava problemi: la vista e il cuore i suoi talloni di Achille. Quando il 4 giugno del ’94 gli telefonai per dirgli che era morto Massimo Troisi, era in macchina: «Cuori pazzi i nostri», mi disse, sapeva di convivere con una spada di Damocle sulla testa, ma era controllato dai medici giorno dopo giorno.
Il ritorno lo vide proiettato verso un nuovo pubblico, una svolta più pop: «Che dio ti benedica» (’93), con Ornella Muti nel videoclip del singolo omonimo, «Non calpestare i fiori nel deserto» (’95) vendette un milione e duecentomila copie. I fans storici storsero un po’ il naso, le nuove generazione lo scoprirono cantore dell’amore, ma sempre con una chitarra lazzarona in mano. «Come un gelato all’equatore» (’99) fu forse il punto meno alto della sua parabola creativa, già «Medina» (2001) lo riportò a tematiche antirazziste e a quell’arab rock che aveva già teorizzato e battezzato. Nel 1980 fece da apripista allo storico concerto di Bob Marley a San Siro, poi si tolse lo sfizio di suonare a Cuba, all’Olympia, di dividere sale di registrazioni e palcoscenici con Ralph Towner, Mike Mainieri, Chick Corea, Steve Gadd, Ritchie Havens, a cui produsse un album. Il tour con Ramazzotti e Jovanotti (’94) fu un evento per tutta la scena italiana, Eros trovò spessore, Pino perse antiche paure, Lorenzo giocò con tutti e due e li introdusse con un rap purtroppo mai messo su disco.
E storia resterà il tour con Pat Metheny (’95) o il concerto con Eric Clapton (24 giugno 2011) nello stadio Simonetta Lamberti di Cava de’ Tirreni, la città che aveva accolto, tanti anni prima, il suo primo vero concerto. Il live, ormai era diventata la sua casa, la sua dimensione preferita: «Non posso più scrivere «Napule è», ma ho tante cose dentro da suonare, se le parole vengono meno le note abbondano», spiegava. Ecco l’idea dei fab four della canzone d’autore che lo vide in scena con Fiorella Mannoia, Francesco De Gregori e Ron, dividendosi canzoni e applausi. «Napule è» restava la sua sigla, ma il pubblico di casa aveva adottato anche «Quando», ogni volta che la intonava si alzava l’urlo «Massimo, Massimo, Massimo», pensando a Troisi.
«Passi d’autore» (2004) fu un azzardo postgregoriano che accompagnò anche in piazza del Plebiscito, poi vennero «Iguana cafè» (2005), «Il mio nome è Pino Daniele e vivo qui» (2007), «Electric jam» (2009), le riletture di «Boogie boogie man», «La grande madre» del 2012 che resterà il suo ultimo album di inediti, ne stava progettando uno per quest’anno: «Ho scritto cose nuove, Federi’, anche in napoletano, tornare indietro nel passato aiuta a costruirsi un futuro», mi aveva detto negli auguri di fine anno. Ma ormai più che ai dischi pensava ai concerti, e nel 2008 con «Ricomincio da 30» ritrovò Senese, De Piscopo, Esposito, Amoruso e Zurzolo rifondando, rilanciando, ritrovando il neapolitan power e il suo orgoglio a 27 annni da «Vai mo’». Un tour da mille e una notte, da mille e una note, che lo portò ancora una volta nella «sua» piazza del Plebiscito, l’8 luglio 2008, in diretta su Raiuno con ospiti come Giorgia, Avion Travel, Nino D’Angelo, Gigi D’Alessio, Irene Grandi. Negli ultimi anni aveva scoperto il rap, prima grazie a Zulù, poi duettando con J-Ax, ora adottando Clementino e Rocco Hunt, con cui progettava collaborazioni importanti: «Sono i miei nipotini», diceva. «Zio Pino è gruosso», rispondevano in coro le due star dell’hip hop newpolitano.
La ripresa di «Nero a metà» è stato il suo ultimo progetto portato a termine: il debutto, la scorsa estate, all’Arena di Verona, con Mannoia, Elisa, Biondi, Renga, Emma. Poi il tour, il ritorno a Napoli, confermando e rinnovando la recente tradizione del concertone di fine anno al Palapartenope, «Tutta n’ata storia». E ora… Napule è… afona. Ciao Pino, non lo finiremo mai quel libro insieme.
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