Orchestra Accademia S.Cecilia, esaltante performance per la direzione di Semyon Bychlov. Ardua e inusuale partitura del compositore Franz Schmidt
Di Sergio Prodigo.
Sabato 17 gennaio (con repliche il 19 e il 20) l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, mirabilmente diretta da Semyon Bychkov, ha offerto una delle più esaltanti performance di sempre, affrontando strenuamente nella seconda parte del concerto una difficoltosa, ardua e inusuale partitura del primo Novecento, la “Sinfonia n. 2” in mi bemolle maggiore, scritta dal mal noto compositore austro-slovacco Franz Schmidt.
Di contro, nella prima parte l’arcinoto “Concerto” in mi minore per violino e orchestra op. 64 di Felix Mendelssohn-Bartholdy, interpretato da Renaud Capuҫon: composto nel 1844 (ma con susseguenti e vari processi rielaborativi spe-cie nella stesura della parte violinistica, in virtù degli amorevoli suggerimenti di Ferdinand David, dedicatario e primo interprete dell’opera), il capolavoro mendelssohniano appartiene a quello sparuto novero delle creazioni mirifiche e irripetibili, pervase sì dai tratti della geniale e felice inventio tematica ma, al tempo stesso, pienamente contraddistinte e marcate dai tratti dell’aurea perfezione formale. È pur vero che nel generale contesto della produzione musicale del compositore amburghese è raro ravvisare specifiche dicotomie e peculiari antinomie afferenti all’estetica romantica, poiché la serenità, la linearità melodica e la poetica espressiva predominano e sovente condizionano il suo linguaggio, ma nel “Concerto” proprio tali elementi tendono a fondersi in un unicum di logica consequenzialità che travalica il medesimo ordito compositivo a livello strutturale e che ugualmente esprime una diversa epesegesi del principio ciclico. In effetti, la tripartizione è solo apparente: una sorta di continuum lega e collega i tre movimenti (“Allegro molto appassionato” – “Andante” – “Allegretto non troppo. Allegro molto vivace”), senza che s’avverta una difforme matrice ideativa, se non nell’alternata sequenza degli andamenti.
Così la stessa rinunzia alla consueta fase introduttiva si rivela essenziale per l’espressione immediata del celebrato tematismo iniziale, affidato ex abrupto al violino solista, quasi l’autore ne intenda significare la valenza motrice e affermarne nel contempo la funzione propositiva e formulativa. Il prosieguo si rivela linearmente logico nelle successioni episodiche, fino al naturale avvento del secondo tema che scaturisce per subitanea gemmazione dialogica, poiché mai si smaga il costante equilibrio tra le due parti – il violino e l’orchestra – in apparente contesa, anzi s’avverte maggiormente la fusione dei due piani sonori, non inficiata dalle frequenti esuberanze cadenzali. In tale contestualità la stessa cadenza, posta al termine del processo elaborativo, s’assume l’onere di esperire ogni possibile mutazione degli elementi motivici, sfociando poi in una caudalità tesa a motivare l’insorgenza magica del tematismo del secondo movimento. Uno struggente lirismo s’impone già all’atto formulativo, quasi presago di un futuro intimismo brahmsiano, ma dipoi – nella sezione centrale – s’incupisce nei toni espressivi per meglio preparare l’antifrasi del “Finale”: il breve recitativo iniziale funge da essenziale connettivo, sia per il riaffiorare dell’idea germinale del “Concerto” sia per la mutazione antinomica del contesto compositivo. Se a livello strutturale si rivela e si delinea l’agile forma del “Rondò-sonata”, le fraseologie espresse si manifestano nelle ricorrenti aggettivazioni del fantastico, dell’aereo e del leggiadro: ciò che permane, infine, è sempre quel citato equilibrio strumentale e quella irripetibile coerenza formale.
Non è semplice interpretare tale capolavoro, da sempre prediletto da tutti i solisti del violinismo storico: Renaud Capuҫon ne ha offerto una corretta lettura, a tratti algida e aliena da cedimenti ad un periclitante sentimentalismo da non dover sempre disdegnare in taluni momenti topici del “Concerto”. Certamente ineccepibile sul piano tecnico e (naturalmente) virtuosistico, l’atto performatico in sé non ha reso a pieno quella fusione, ampiamente descritta nella sommaria analisi, fra le due parti contendenti, sovente non in sintonia nelle fasi dinamiche, pur se il non numerosissimo pubblico ha poi tributato la consueta ovazione al solista.
Pervenendo, ora, a commentare l’atteso evento della seconda parte, occorre premettere che la “riscoperta” di opere neglette dalla prassi esecutiva costituisce sempre una meritoria operazione sul piano culturale e specificamente musicologico. La prima esecuzione ceciliana della “Sinfonia n. 2” di Franz Schmidt, nato nell’asburgica Presburgo (l’odierna Bratislava) nel 1874 e morto nella Vienna dell’Anschluss nel 1939, ha certamente riproposto le complesse tematiche delle tendenze compositive ed estetiche del primo Novecento storico. Il compositore austriaco sembra collocarsi in quella sorta di limbo tonale che, perseguito con estrema coerenza, non si permeava o si adeguava all’evoluzione stessa del linguaggio: basti pensare che la “Sinfonia”, rigorosamente in mi bemolle maggiore, venne composta da Schmidt fra il 1911 e il 1913, anni che videro anche la nascita di due antitetici e innovativi capolavori, come “Le sacre” di Stravinskij e il “Pierrot lunaire” di Schönberg! Appare agevole, pertanto, tacciarlo di conservatorismo o, con maggiore adeguatezza ai contenuti stilistici, considerarlo semplicemente un epigono di Bruckner (del quale fu anche allievo).
Eppure, una accurata esegesi della intricata e macchinosa partitura rivela anche una profonda ricerca di soluzioni e risoluzioni armoniche di rara ingegnosità organica; ugualmente ricercata si mostra la trama orchestrale, magniloquente nella timbricità dei fiati ma brahmsianamente meticolosa nelle frequenti suddivisioni funzionali degli archi. Tre gli oblunghi e verbosi movimenti: il primo (“Lebhaft”) si aggroviglia intorno ad un tematismo principale, oggetto di reiterate mutazioni di natura timbrica e armoni-ca; il secondo (“Allegretto con variazioni”), pur fedele ad analoghi modelli brahmsiani, offre un’ampia gamma delle possibilità mimetiche del tema prescelto, oggetto di ben dieci difformi variazioni che – intenzionalmente e programmaticamente – afferiscono alle diverse etnie di un impero austro-ungarico ormai prossimo alla sua dissoluzione; il terzo (“Langsam”) si avvale d’una idea motivica mutuata dal movimento precedente, ma ne esalta nella larvata forma del rondò le componenti contrappuntistiche, sovente eccessivamente elaborate per intenti parossistici.
Di là dalle considerazioni espresse, l’opera si ascolta – e si è ascoltata – con estremo interesse e conseguente piacevolezza: non turba la sua prolissità, poiché asseverata da una sapiente costruzione formale, ma certamente pesa o, forse, condiziona il giudizio estetico la non esaltante incidenza del tematismo medesimo che mai assurge alle geniali intuizioni di coevi compositori (come Mahler, in parte, o più logicamente Richard Strauss), pur pervicaci nella condivisione del linguaggio tonale.
Straordinaria ed esaltante sotto ogni possibile aspetto la maiuscola prova offerta dall’Orchestra dell’Accademia, alle prese con una difficoltosa e ardua scrittura strumentale, specie nelle parti degli archi: eccellente si è rivelata la concertazione e la direzione di Semyon Bychkov, che, parafrasando Montale, ha sapientemente dosato ogni effetto orchestrale, di là da ogni gigionismo e meticolosamente fedele allo spirito di una coraggiosa proposta musicale. Grande, convinto ed entusiasta, il consenso del pubblico ceciliano si è espresso finalmente in una rumorosa messe di applausi e ovazioni.
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