All’Accademia di Santa Cecilia lo straordinario binomio Pappano-Batiashvili
di Sergio Prodigo.
Sabato 20 gennaio (con repliche il 25 e il 27) al Parco della Musica l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, diretta da Sir Antonio Pappano, e la violinista Lisa Batiashvili hanno mirabilmente interpretato un fascinoso pro-gramma sinfonico, dedicato a Dukas (lo “Scherzo sinfonico” “L’apprenti sorcier”) e a Sibelius (il “Concerto” in re minore per violino e orchestra) nella prima parte e, nella seconda, a Musorgskij (i “Quadri di un’esposizione” nell’orchestrazione di Ravel).
Con essenziali e succinti termini si potrebbero evidenziare, per tale eccezionale contesto e connubio, il trionfo tributato da uno straripante pubblico alla giovane e leggiadra violinista georgiana, «ammirata per il suo virtuosismo e per la pro-fonda sensibilità musicale e tra le violiniste più richieste dei nostri giorni» (come recita il suo prestigioso curriculum), la maiuscola prestazione dell’orchestra ceci-liana e la perfetta lettura critica dei testi musicali da parte dell’immenso Pappano.
Certamente ha giovato a tale concomitanza performatica l’estrema popolarità dei brani proposti all’esecuzione, accomunati – pur nel difforme “ambitus” stili-stico ed estetico – da sgargianti fantasmagorie strumentali e da immediate incisi-vità tematiche. Già l’iniziale e celeberrimo “Apprendista stregone” (reso celebre “a posteriori” dalla versione cinematografica disneyana – nel film d’animazione “Fantasia” del 1940 – magistralmente adattato da Leopold Stokowski) ha asseve-rato il non celato proponimento di captare e coartare l’interesse, l’attenzione e l’induzione immaginifica degli astanti. Certamente il suo autore, Paul Dukas (1865-1935), non rientra nel ristretto novero dei “grandi”: misconosciuta quasi la sua produzione, criticamente e coscientemente limitata ad una sola opera per ge-nere e sovente intellettualizzata ai limiti della leziosità compositiva, proprio quell’immediatezza espressiva s’impone già negli esordi timbrici e incidentali del-lo “Scherzo sinfonico”, scritto nel 1897 e ispirato ad una ballata di Goethe, con-testualmente ironica, dissacrante, esoterica ed essoterica. Simili aggettivazioni ben s’attagliano al derivante contenuto musicale: la schietta icasticità del tema princi-pale, la sua diatonica efficacia espressiva che si permea e si presta a ogni possibi-le mutazione, un funzionale supporto armonico e una superba strumentazione, perfettamente in linea con la tradizione gallica dei virtuosismi e dei tecnicismi dell’orchestrazione romantica e postromantica.
Il virtuosismo, puro ed essenziale in tutte le sue possibili caratterizzazioni, si è rivelato naturalmente e con più eclatante evidenza nella susseguente esecuzione del “Concerto” in re minore per violino e orchestra op. 47 di Jean Sibelius. Com-posto nel 1903, il lavoro non sembra discostarsi da una connotazione tardoro-mantica, quasi decadentista, anzi ne accentua il particolare climax nelle antinomi-che enunciazioni di reminiscenza tanto brahmsiana quanto čajkovskijana: eccel-lente, non di meno, la componente formale dei tre movimenti costitutivi (“Allegro moderato” e “Adagio di molto” e “Allegro ma non tanto”), schietta e subitanea la loro struttura tematica, ben differenziata a livello topico per i tre andamenti (rap-sodico, elegiaco e ritmicamente energico e ridondante), equilibrato il rapporto timbrico fra solista e orchestra, efficiente e non privo di talune arditezze il sostra-to armonico. Certamente il compositore finnico, che visse fino al 1957 (e del qua-le ricorre il 150° anniversario della nascita), non si discostò mai da un sistema saldamente ancorato ai canoni del tonalismo, specie dopo la svolta neoclassica, ma la sua coerenza musicale si espresse essenzialmente in un cosciente isolamen-to, ancorché splendido (concretatosi compositivamente soprattutto nella “Settima Sinfonia”, nelle musiche di scena per “La tempesta” di Shakespeare, nei poemi sinfonici “Finlandia” e “Tapiola” e, infine, nel “Canto di Väino” per coro e orche-stra), dalle coeve e diversificate correnti estetiche europee.
Se la correlata abbondanza di aggettivazioni può caratterizzare un pur breve excursus sulla genesi di un’opera, sovente appare arduo attribuirne di similari o di correlative (appunto) alla sua esecuzione: è (ed è stato) il caso della straordina-ria interpretazione che del “Concerto” ha saputo dare e donare Lisa Batiashvili. Alla perfezione tecnica e al connesso e imprescindibile virtuosismo ha saputo co-niugare e aggregare l’intuizione profonda del significante musicale nella sua es-senza più intima, ossia ne ha vivificato la fraseologia medesima, conferendo natu-rale espressività e coerente logica alle citate componenti rapsodiche, elegiache e ritmiche: conseguentemente la reazione della vastissima platea ceciliana non ha potuto che esprimersi in entusiastiche ovazioni e acclamazioni, a lungo protratte-si fino alla concessione dell’agognato bis.
Con consequenziale e propizia predisposizione l’esecuzione, nella seconda par-te, dei “Quadri di un’esposizione” di Modest Musorgskij s’è rivelata come il de-gno coronamento dell’evento artistico, poiché il capolavoro del compositore rus-so, concepito per la monistica timbricità pianistica, assurge ad altri livelli emo-zionali nella perfetta e irripetibile (nonostante altri tentativi del passato anche re-cente) trascrizione orchestrale di Ravel. Appare indubbio, tuttavia, come si evi-denzi e risalti ugualmente nell’intero corpus di una inusuale “suite” (scritta come omaggio al pittore Victor Hartmann) l’avanzata concezione armonica (con ampi squarci di spazi tonali allargati) e strutturale di Musorgskij, pur interconnessa ad una forte componente di derivazione popolare e ad una sorta di nobile dilettanti-smo, molto distante dalla coeva estetica romantica. La citata inusualità della suc-cessione dei diversi brani costituenti (ispirati ma non formalmente descrittivi dei quadri esposti) si esplica nella “inventio” di un tema-guida (la “Promenade”) che collega le diverse raffigurazioni pittoriche e le relative trasposizioni musicali (“Gnomus”, “Il vecchio castello”, “Tuileries”, “Bydlo”, “Balletto dei pulcini nei loro gusci”, “Samuel Goldenberg e Schmuyle”, “Il mercato di Limoges”, “Cata-cumbae. Sepulcrum Romanum”, “Cum mortuis in lingua mortua”, “La capanna di Baba Jaga” e “La grande porta di Kiev”). Ogni brano contiene caratteristiche particolari e abbisognerebbe di specifici e peculiari commenti analitici per i con-tenuti tecnico-innovativi sia musicali sia extramusicali (che trovano la loro culmi-nazione nell’assenza di nessi tonali nella parte centrale di “Baba Jaga” e nel gran-dioso affresco finale, “La grande porta di Kiev”, che assurge quasi a glorificazione di un inatteso monotonalismo): di là da una complessa esegesi (seppur sarebbe necessaria in altri contesti esplicativi), il valore aggiunto della tecnica orchestrale di Ravel conferisce la giusta dimensione ed entità ad un’opera (in tale ottica da nomare come “Tableaux d’une exposition”) altamente evocativa e rappresentati-va sotto ogni possibile angolazione fruitiva e percettiva.
Logica si è rivelata, quindi, la sua proposizione, che ha dato agio all’Orchestra dell’Accademia di esprimersi ai consueti vertici di eccellenza e al suo direttore di crearne una fantasmagorica, trascinante ed entusiasmante rappresentazione. Pappano – si sa – non usa la bacchetta, poiché è l’intera sua corporeità che co-munica e trasmette l’atto performativo alla massa orchestrale: l’atto in sé, frutto di attente e meditate analisi dei diversificati linguaggi musicali, conferisce logicità agli intenti esecutivi che s’emanano dalla gestualità, ne traduce musicalmente il pensiero e muta quella massa in un monolitico strumento multitimbrico. In tal senso l’“Isotteo” è servito, almeno a parere di pubblici entusiasti e di chi ne rece-pisce, ne chiosa e ne condivide afflati e giudizi!
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