Pavia, è morta la donna chiusa in casa dal marito da oltre venti anni, pesava 15 kg. Il suo “carceriere”: “Non voleva mangiare, provavo a darle del brodo”
Vent’anni chiusa in casa, gli ultimi tre stesa sul letto. Immobile, denutrita, scarnificata, con il corpo pieno di piaghe, Laura Carla Lodola aveva 55 anni e pesava ormai 15 chili. All’alba di lunedì il suo compagno, Antonio Calandrini, 60 anni, ha chiamato il 118 per chiedere aiuto: la donna aveva ormai perso conoscenza. È stata quella telefonata ad aprire uno squarcio in un silenzio lunghissimo, quello di due vite annegate nel nulla, autoescluse dalla società, barricate tra le mura di un appartamento dignitoso alla periferia di Pavia. Un dramma in cui, per una volta, la miseria non c’entra e le spiegazioni – dicono gli investigatori – sono da cercare nei meandri di due menti smarrite. Laura è morta in ospedale all’alba di ieri. I medici, di fronte a quel corpo miracolosamente ancora in vita, erano disarmati: sotto la soglia dei 25 chili le funzioni vitali dovevano già essere cessate. Non potevano spostarla, tanta era la fragilità delle ossa, non era possibile neppure farle un’iniezione. Gli infermieri hanno cerato di alimentarla, le hanno tagliato i capelli che arrivavo ai piedi e le unghie, più lunghe della dita. Hanno cercato di curare le piaghe, ormai infette, di afferrare quel briciolo di vita che ancora resisteva. Ma, alla fine, Laura si è spenta.
Alla polizia è bastato poco per fermare Antonio Calandrini e il procuratore capo Gustavo Cioppa ieri, insieme alla pm Ethel Ancona, ha chiesto al gip la convalida del fermo formalizzando così le accuse: sequestro di persona, abbandono di incapace, lesioni gravissime, maltrattamenti da cui è derivata la morte. «Lei non ha mai voluto farsi curare – ha raccontato l’uomo ai magistrati – ma io le sono stato sempre accanto, cercavo di farla mangiare. Per accudirla ho anche preso un’aspettativa». Distante dalla realtà dei fatti, prigioniero di un rapporto morboso con la compagna, Calandrini aveva costruito in vent’anni un tran tran allucinante. Nessuna amicizia, nessuna frequentazione, rapporti con i parenti interrotti da tempo. Lui, portiere notturno del Collegio Nuovo (dove tutti lo ricordano come una persona gentile, educata, «con un problema in famiglia»), finito il turno si chiudeva in casa con lei. Tapparelle abbassate, niente tv, niente cellulare. Cercava – dice – di farle bere un cucchiaio di minestra, un sorso di the, poi si stendeva su quel letto sudicio e maleodorante in cui l’esile corpo di lei giaceva in posizione fetale e dormiva. I vicini non li vedevano mai, non si erano mai accorti di nulla.
Della vita di Laura non c’è traccia
A 22 anni comincia a frequentare Antonio, nove anni dopo iniziano a convivere in quella casa che diventerà la sua prigione. Aveva una sorella, con cui i rapporti erano interrotti da 15 anni, mentre il fratello è stato l’ultimo a vederla, tre anni fa: lei stava già male, faticava a reggersi in piedi, una sindrome depressiva degenerata, sembra. Il fratello aveva pensato di rivolgersi ai servizi sociali per farli aiutare ma l’uomo si era opposto sostenendo che era in grado di farcela da solo. E così le due vite sono state definitivamente inghiottite nel nulla.
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