All’Auditorium del Parco della Musica l’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia “rievoca” il Romanticismo tedesco
Di Sergio Prodigo.
Il concerto di sabato 7 febbraio (con repliche il 9 e il 10) dell’Orchestra dell’Accademia di Santa Cecilia, diretta da Marc Albrecht (con la partecipazione del violinista Joshua Bell) ha offerto una particolare e intellegibile retrospettiva del sinfonismo romantico, seppur rappresentandone le afferenti di-cotomie e antinomie estetiche, espresse dalla difforme weltanschauung di due dei suoi maggiori interpreti, Wagner e Schumann, e di un illustre epigono, Max Bruch. In tal guisa andrebbe inferito il necessario discernimento nella proposizio-ne di tre emblematici stati e stadi di quella irripetibile epopea ottocentesca, raffi-gurata e ben delineata – nello specifico e in sequenza non cronologica – dalla “Ouverture” di “Der fliegende Hollander” (“L’Olandese volante”) di Richard Wagner, dalla “Fantasia scozzese” di Max Bruch e dalla seconda “Sinfonia” di Robert Schumann.
Va osservato come la sinfonia d’apertura della prima delle dieci opere autenti-camente wagneriane (i tre lavori teatrali dell’esordio, “Die Feen”, “Das Liebesver-bot oder die Novize von Palermo” e “Rienzi der Letzte der Tribunen”, non con-tengono certamente gli elementi tipici del suo linguaggio e della sua concezione drammaturgica) riveli sia una solida struttura sonatistica sia la prima avvisaglia del principio compositivo basato sull’adozione del leitmotiv. In effetti, il contra-sto fra l’iniziale enunciazione delle quinte vuote, supportate da susseguenti cro-matismi ascendenti (il tema dell’Olandese), e la conseguente melodicità accordale dell’idea motivica di Senta (colei che salverà il protagonista dal suo eterno errare) costituisce l’essenza del rapporto dialettico e strutturale sul quale s’edifica e si sviluppa l’“Ouverture” (e, in seguito, l’intera opera), anche se tematismi accesso-ri ne contrassegnano le connesse elaborazioni portanti; solo il finale sembra di-staccarsi da tale contesto, forse perché si fonda sul tema della “redenzione”, so-vrascritto in partitura da Wagner vent’anni dopo la prima stesura dell’opera stessa (che risale al 1841).
Indubbiamente il brano, al pari dell’altra similare, correlativa e grandiosa pièce – l’“Ouverture”’ del “Tannhäuser” – conserva immutata e immutabile una forte “vis” evocativa in grado di rendere partecipe e consapevole l’uditorio di linguaggi e contenuti sempre contraddistinti dalle caratterizzanti peculiarità dell’immediatezza ricettiva e percettiva, favorita dall’eccellenza esecutiva e inter-pretativa: proprio l’ottima performance dell’orchestra ceciliana e l’accurata con-certazione di Marc Albrecht, ancor giovane (musicalmente, per inteso) direttore tedesco e celebrato esegeta del repertorio wagneriano e straussiano, hanno entu-siasmato il folto pubblico presente, propiziando l’ascolto della conseguente pro-posizione solistica.
Max Bruch e la sua “Fantasia” «per violino con orchestra e arpa con libero uso di melodie popolari scozzesi in mi bemolle maggiore op. 46» (come debitamente annotato sul programma di sala): composta nel 1880 e strutturata secondo i clas-sici canoni del genere – nello specifico un’introduzione (“Grave”) e quattro inin-terrotti movimenti (“Adagio cantabile”, “Scherzo: Allegro”, “Andante sostenuto” e “Finale: Allegro guerriero) –, non sembra accogliere, raccogliere ed esternare la concezione estetica sia sul piano espressivo sia a livello sintattico di quella sta-gione tardoromantica mirabilmente incarnata dal quasi coevo Brahms; vi si rav-visa, di contro, un manifesto manierismo protoromantico, forse ascrivibile ad una tipologia mendelssohniana, ma senza che l’elemento popolare si traduca in ge-nuinità inventiva o si limiti alla citazione celata, nobilitata e sublimata. Quel che s’avverte è una sorta di sudditanza alla contestuale enunciazione dei temi di me-lodie e danze scozzesi, che non èleva o asseconda la capacità creativa o ri-creativa, pur se l’insieme dell’assemblaggio risulta poi di estrema gradevolezza e di innegabile o accattivante fascino, dovuto e connesso alla componente virtuosi-stica sagacemente affidata allo strumento solista.
La buona prova offerta dal violinista americano e dal suo Stradivari è stata largamente apprezzata dagli astanti con un crescendo di ovazioni sempre miranti a ottenere un immancabile bis (concesso, naturalmente). Di là dalla consueta prassi (un breve pezzo per violino solo), Joshua Bell ha voluto gratificare il pub-blico con l’esecuzione di un celeberrimo brano, che apparterrebbe al novero di ciò che montalianamente si potrebbe definire come “bad music”, la “Meditation” dal-la “Thaïs” di Jules Massenet: accompagnata dall’arpa (Cinzia Maurizio, già im-peccabile deuteragonista nella “Fantasia” di Bruch) e dall’orchestra, la struggente melodia ha egregiamente appagato le aspettative dell’uditorio, che ha tributato al solista una prolungata messe di applausi.
Nella seconda parte del concerto la “Sinfonia n. 2” in do maggiore op. 61 di Schumann ha degnamente ripristinato gli equilibri artistici e indotto una sorta di liminalità musicale, nel senso che il trapasso allo spirito romantico per eccellenza (e certamente più autentico) s’è avvertito con maggiore pregnanza e dovizia, an-che in virtù di un alto livello performativo simbioticamente espresso dal direttore e dall’orchestra. Il capolavoro schumanniano, di là dalla valenza intrinseca e dai contenuti estetici dei suoi quattro movimenti (“Sostenuto assai – Allegro ma non troppo”, “Scherzo: Allegro vivace con Trio I e Trio II”, “Adagio espressivo” e “Allegro molto vivace”), si presta a due considerazioni o rilievi, l’uno di carattere compositivo e l’altro di natura strutturale-programmatica.
In primo luogo, diversamente dalle opere pianistiche, sovente caratterizzate da geniali invenzioni motiviche e ricchi sostegni armonici, nella “Sinfonia”, terminata dopo una lunga e sofferta elaborazione nell’autunno del 1846 (ed eseguita il 5 novembre dello stesso anno al Gewandhaus di Lipsia con la direzione di Men-delssohn), sembra prevalere una ricerca costante di rapporti e connessioni con-trappuntistiche (tra l’altro, proprio in quegli anni Schumann aveva sviscerato a fondo le “Cours de contrepoint” di Cherubini e analizzato compiutamente l’opera di Bach), che non inficiano la trasparenza delle linee melodiche, anzi ne vivificano una “inventio” di notevole slancio espressivo (si pensi soprattutto alla parte cen-trale del commovente “Adagio espressivo”).
In seconda istanza la ciclicità di ricorrenze tematiche (non assimilabile, tuttavia, alle coeve innovazioni lisztiane) si coniuga con lo spirito della citazione (non di melismi popolari ma di reminiscenza “dotta”), già profuso proprio programmati-camente nella “Fantasia” in do maggiore per pianoforte op. 17, nella quale il No-stro dissemina a iosa una pluralità di particelle beethoveniane (una paziente ope-ra di dissodamento rivelerebbe appieno il loro significante o rilievo tratteggiato, legato e connesso strutturalmente forse al desiderio mal represso di proseguire lungo la scia delle ultime cinque “Sonate” del “Titano”). Anche nella seconda “Sinfonia” (precisamente nella parte conclusiva del quarto movimento) si rinviene simile discendenza beethoveniana: trattasi del tematismo iniziale del sesto Lied, tratto dal ciclo “An die ferne Geliebte” (“all’amata lontana”) per voce e pianoforte op. 98, composto da Beethoven nel 1816.
Tutto ciò si configura e si concreta in un contesto strumentale che supera o quantomeno vanifica, proprio all’ascolto, i reiterati giudizi o pregiudizi, sovente espressi da analisti e critici di varia tendenza, sulla cosiddetta imperizia di Schu-mann nella tecnica specifica dell’orchestrazione (lo stesso Mahler, grande orche-stratore, sentì e seguì l’impulso di “riorchestrare” le sinfonie schumanniane): in-vece, quel linguaggio e quella espressività abbisognavano di quella strumentazio-ne, in quanto interconnessa e concatenata a quel processo creativo. Come per il suo amplissimo repertorio pianistico è sempre necessario un grande interprete, così risulta imprescindibile il medesimo abbinamento per quello sinfonico: l’interpretazione offerta dall’Orchestra dell’Accademia e da Marc Albrecht ha pienamente espresso lo spirito e l’essenza di tale congiunzione, riscuotendo il ca-loroso consenso del pubblico ceciliano.
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