All’Accademia di Santa Cecilia lo strepitoso binomio Pappano-Jansen
Di Sergio Prodigo.
Sabato 21 febbraio (con repliche il 23 e il 24) al Parco della Musica l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia e il suo direttore e mentore, Sir Antonio Pappano (con la preziosa partecipazione di un’altra “divina” virtuosa del violino, Janine Jansen), hanno rappresentato e parafrasato la particolare binomia romantica Schumann-Brahms (la quarta “Sinfonia” e il “Concerto” per violino e orchestra), ma una ponderata scelta programmatica vi ha anteposto la raffinata e filologica esecuzione di una contrastiva pagina del Novecento storico, i “Concerti per orchestra” di Gian Francesco Malipiero. A tal proposito andrebbe doverosamente rilevato che la musica strumentale e sinfonica in Italia, a lungo negletta nell’Ottocento (a parte i rari lavori specifici dei grandi operisti e le produzioni di autori minori, come Sgambati, Martucci e Bossi), rinacque e riacquisì unità stilistica, consapevolezza e spessore proprio nel primo trentennio del XX secolo, grazie ad una schiera di compositori, nati intorno al 1880, ossia la cosiddetta “Generazione dell’Ottanta”: Ottorino Respighi, Ildebrando Pizzetti, Alfredo Casella e – appunto – Gian Francesco Malipiero. Ancor più di Pizzetti, vero nume tutelare della generale contestualità musicale italiana di quel periodo storico-estetico, Malipiero (1882–1973) rifuggì dalla tradizione romantica e melodrammatica, traendo ispirazione dal canto gregoriano e dall’antica monodia cinquecentesca ed elaborando un metodo compositivo basato sull’articolazione episodica con totale assenza di sviluppi tematici; la sua vastissima produzione, oltre le trascrizioni di musiche italiane del Cinquecento, Seicento e Settecento, comprese lavori teatrali (“Pantea”, “Le sette canzoni”, la trilogia dell’“Orfeide”, “Tre commedie goldoniane”, “Torneo notturno”, “La favola del figlio cambiato”, “Giulio Cesare”, “Antonio e Cleopatra”, “La vita è sogno”, “Il figliuol prodigo”, “Il capitan Spavento”, “Le metamorfosi di Bonaventura”, “Don Tartufo Bacchettone” e “Uno dei dieci”), sinfonici (11 “Sinfonie”, 6 “Concerti” per pianoforte e orchestra, 2 “Concerti” per violino e orchestra, “Impressioni dal vero” e “Pause del silenzio”), sinfonico-corali (“S. Francesco d’Assisi”, “La Passione”, “Santa Eufrosina”, la “Missa pro mortuis”, “Li Sette peccati mortali”), cameristici (“Ricercari” e “Ritrovari” per 11 strumenti, 8 “Quartetti” per archi, ecc.) ed anche letterari (“La pietra del bando”, “Il filo d’Arianna” e i “Saggi” su Stravinskij, Monteverdi e Vivaldi). I “Concerti per orchestra” si contestualizzano nella menzionata ricerca storicistica che il compositore veneto perseguiva e conduceva sugli stilemi della tradizione strumentale dell’italico aureo passato, rinverdendone o reinventandone modalità e procedimenti compositivi anche attraverso riscritture o acribie rielaborative. Lo spirito di un’ideale suite tende a concretarsi nella logica sequenza di sette abili “concertati”, accentrati ciascuno sulle varie famiglie e specificità strumentali (“concerto di flauti”, “concerto di oboi”, “concerto di clarinetti”, “concerto di fagotti”, “concerto di trombe”, “concerto di tamburi” e “concerto di contrabbassi”), preceduti da un “esordio” e conclusi da un naturale “commiato”. Certamente si potrebbe ravvisare nel peculiare linguaggio una stravinskjiana tendenza o componente neoclassica, tuttavia sembra prevalere una spiccata autonomia tematica, almeno a livello di “inventio”, corroborata da dannunziani squarci espressivi che sovente vivificano una sostanziale uniformità strutturale. Naturalmente tale lavoro richiede doti esecutive eccelse, poiché tutto il complesso strumentale e, soprattutto, le prime parti vengono via via chiamate ad assolverne e risolverne la complessa scrittura: l’orchestra ceciliana, da sempre avvezza ad affrontare repertori similari, si è quasi esaltata nell’arduo compito, sorretta e gestita dalla ineccepibile perfezione concertativa e direttoriale di Pappano. Ancor più evidente simile inappuntabilità e coerenza esegetica nella susseguente interpretazione del capolavoro schumanniano, la “Sinfonia n. 4” in re minore op. 120: cronologicamente il brano sinfonico si colloca nello stesso anno (il 1841) in cui venne composta la “prima”, ma la sua revisione e la stessa riproposizione (risalente al 1853) la enumerano come “quarta”, posizionandola in un diverso (e più maturo) contesto compositivo. Alla suddetta precisazione consegue e si connette una necessaria considerazione d’ordine strutturale: la stesura originale della “sinfonia”, peraltro preferita dallo stesso Brahms, si situa nell’ambito formale della “fantasia”, ossia di una configurazione architettonica ciclica, poiché pur nella difformità elaborativa si fonda sulla dialettica enunciativa di due principali frammenti motivici, che contrassegnano e condizionano il tematismo dei quattro apparenti movimenti (“Alquanto lento” – “Vivace”, “Romanza: Alquanto lento”, “Scherzo: Vivace – Trio” e “Finale: Lento Vivace”). Va altresì osservato che due derivate espressioni tematiche – a livello incidentale – si rinvengono sia in Brahms (il tema della “Romanza” nelle battute iniziali del terzo movimento della “Sinfonia n. 3” in fa maggiore op. 90) sia in Čajkovskij (il tema dello “Scherzo” nell’inciso centrale dell’“Allegro con anima”, dal primo movimento della “Sinfonia n. 5”). Di grande impatto emotivo l’interpretazione che ne ha offerto Pappano: la sua perizia nella trasposizione performativa ha annullato in certo qual senso la marcata “pesantezza” dell’orchestrazione schumanniana, restituendo al capolavoro la leggiadria, l’armoniosità, la vigoria e la fluidità dei suoi contenuti espressivi. Nella seconda parte del concerto l’attesa per l’esibizione di Janine Jansen è stata ampiamente ripagata da una eccellente esecuzione del Concerto in re maggiore op. 77, di Johannes Brahms, uno dei massimi capolavori nel genere sinfonico-solistico. L’opera, infatti, si avvale tematicamente di ampi e nitidi costrutti fraseologici, costantemente corredati da ricchi sostrati armonici: all’estrema cantabilità, sovente di tipo accordale, e alla nettezza ritmica delle componenti motiviche, disseminate nella spazialità dilatata del primo movimento (“Allegro non troppo”), si giustappone lo spirito arcadico delle linee melodiche che pervadono il secondo (“Adagio”), sin dalla prima inventio, espressa dall’evocativa timbricità dell’oboe, alla stregua di una rimembranza mozartiana, e innestata nell’impasto armonico degli altri legni e dei corni; di seguito, il violino può mutarne la natura, dispiegando scalarità, arpeggi e locuzioni figurate di ampio respiro anche attraverso reiterate fasi modulative. Diverso per indole e ideazione il finale (“Allegro giocoso, ma non troppo vivace”): una giocosa tematicità, appunto, non aliena da estri tzigani, ne caratterizza anche i tratti più marcatamente virtuosistici nell’incessante gioco dialettico fra il solista e la massa orchestrale. Certamente tutto quanto attiene alla più complessa tecnica violinistica è ampiamente presente nell’intero “Concerto”, sia nell’originale concezione brahmsiana sia nelle “benevoli” chiose e nelle ardue cadenze di Joseph Joachim, il suo primo interprete. La performance della celebre violinista olandese si è rivelata irreprensibile sul piano stilistico, straordinaria a livello virtuosistico e trascinante nel puro ed emozionale atto esecutivo: conseguentemente, interminabili ed entusiastiche ovazioni e acclamazioni da parte del numerosissimo pubblico, appagato infine dalla concessione di un raffinatissimo bis bachiano.
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