Al Parco della Musica “Daphnis et Cloe” di Ravel e una “prima” ceciliana di Casella con la direzione di Gianandrea Noseda
(di Sergio Prodigo) Nel concerto dell’Accademia di Santa Cecilia – lo scorso sabato 18 aprile (con repliche il 20 e il 21) – all’Auditorium del Parco della Musica si è assistiti ad un evento musicale di notevole pregnanza storico-estetica: la proposizione in prima esecuzione (nell’ambito dei concerti ceciliani) della “Sinfonia n. 2” di Alfredo Casella, la cui composizione risale al 1908. Sul significato e sulla valenza di tale accadimento si tratterà più avanti: “in primis” preme discettare delle due “Suites” tratte dal celebre balletto raveliano “Daphnis et Cloé”, eseguite in apertura dalle compagini corali e orchestrali di Santa Cecilia, magnificamente dirette da Gianandrea Noseda.
Premettendo (ma non meramente) che Ravel iniziò la composizione del balletto intorno al 1909 (l’anno successivo alla prima stesura della “sinfonia” caselliana), occorrerebbe preliminarmente considerare come tale sublime lavoro rappresentasse sia una delle massime estrinsecazioni del suo virtuosismo sinfonico sia l’espressione più aderente al contesto estetico della sua particolare poetica compositiva, forse avulsa da apparentamenti o da collocazioni stilistiche nette e definibili nell’ambito del Novecento storico. In effetti, nel compositore francese il recupero della tradizione classica francese, dalla polifonia rinascimentale al barocco, si coniugava con l’assorbimento degli stilemi di origine popolare, dal folklore iberico al jazz, e delle esperienze più diversificate degli autori coevi: ne derivava sempre – ed è ravvisabile in ogni lavoro – una conseguente minuziosità elaborativa, unitamente ad un’opera di cesello che contraddistingueva la stessa diversità e il cosciente polimorfismo del suo linguaggio, for-se a torto conchiuso nella genericità di un cosciente eclettismo. In realtà, ogni sua opera – sia pianistica, sia cameristica, sia sinfonica e sia teatrale – si generava e gravitava intorno ad una circostanziata identità strutturale, mai reiterabile, e si basava su non mutuabili invenzioni melodiche, apporti armonici cangianti e funzionali, sagacia timbrica e suggestioni evocative. Tali elementi nel “Daphnis et Cloé” si estrinsecano e si palesano con particolare veemenza e geniale nitidezza, poiché si coniugano proprio all’evocazione di una grecità arcadica, priva di vacui manierismi ma quasi storicizzata nel favolismo narrativo, poiché condizionata da espliciti riferimenti a opere pittoriche del tardo neoclassicismo francese.
In tale ambito la vicenda amorosa dei due giovani funge da pretesto per un’azione coreografica (il balletto venne rappresentato nel 1912 al Théâtre du Châtelet dalla compagnia dei Balletts Russes di Diaghilev) che soggiace inevitabilmente alla componente musicale, affrancandosi – specie nelle due “Suites” che Ravel estrapolò dal balletto – da condizionamenti scenici o scenografici, ma dipanandosi attraverso una coerente sequenza di frammenti sinfonici e sinfonico-corali (“I Suite”: “Nocturne”, “Interlude” e “Danse guerrière”; “II Suite”: “Lever du jour”, “Pantomime” e “Danse générale”).
La partitura raveliana è sempre estremamente complessa e la scrittura strumentale abbonda di notevoli e astruse difficoltà a livello espressivo ed esecutivo: è quasi naturale o forse ripetitivo evidenziare la perfetta performance del Coro (egregiamente preparato da Ciro Visco) e dell’Orchestra di Santa Cecilia, ma in tale contesto va particolarmente elogiata l’eccellente prestazione individuale del primo flauto (strumento al quale Ravel affida un ruolo primario nell’economia dell’opera), Andrea Oliva, per la bellezza del suono e per l’ineccepibile tecnica palesate in tutti gli “assolo”. Di gran livello si è rivelata, infine, l’interpretazione di Gianandrea Noseda, considerato – come si evince dal suo prestigioso curriculum – «come uno dei maggiori direttori d’orchestra della sua generazione»: accurata e ricercata la sua esegesi analitica, tale da cogliere ogni minimo dettaglio timbrico e da rendere chiaro e lineare ogni elemento strutturale delle due “Suites”: grande, di conseguenza, l’entusiasmo del folto pubblico che ha lungamente applaudito tutti gli interpreti, predisponendosi all’ascolto susseguente dell’attesa “prima”, la “Sinfonia n. 2” in do minore op. 12 di Alfredo Casella. Lo stesso Noseda ha voluto, con una breve e dotta prolusione, introdurla e presentarla, illustrandone i contenuti musicali ed extramusicali e rammentando anche come lo stesso Casella, in veste diversa, avesse diretto l’orchestra (regia) ceciliana nel febbraio del 1815 (esattamente un secolo fa) all’Augusteo, eseguendo musiche di compositori coevi francesi, fra le quali figurava proprio la “Suite n. 2” dal “Daphnis et Cloé” di Ravel!
Coincidenze.
Felici, certamente, e senz’altro volute: l’abbinamento Ravel-Casella e la riproposizione o la riscoperta di un’opera composta ugualmente a Parigi e negli stessi anni di quel determinante primo decennio dello scorso secolo. Del resto, Casel-la, eccellente pianista e didatta, fu molto legato alla cultura musicale europea, dalla quale assimilò linguaggi, tendenze e tecniche compositive (dall’impressionismo al neoclassicismo); scrisse lavori teatrali e balletti (“La giara”, “Il convento veneziano”, “La donna serpente” e “La favola d’Orfeo”), numerose composizioni sinfoniche e sinfonico-corali (3 “Sinfonie”, il poema sinfonico “Italia”, “Scarlattiana”, “Pagani-niana”, il “Concerto” op. 69 per pianoforte, archi e percussioni, i “concerti” per violi-no e per violoncello e orchestra, ecc.), brani pianistici, revisioni di molte opere piani-stiche e testi letterari e teorici (“I segreti della giara” e “La tecnica dell’orchestra contemporanea”).
Si evince, pertanto, dal breve excursus la grande versatilità di un musicista, che, impegnato su tutti i fronti dello scibile musicale, riuscì a eccellere sia nel campo didattico-esecutivo sia in quello specificamente compositivo, incidendo fortemente sul-le fortune della Grande Musica a livello europeo e assumendo gradualmente, in Italia e in tale ambito letterario il ruolo e la funzione di “nume tutelare”. Forse la sua natura compositiva non presentava quei tratti di originalità e di genialità che ne avrebbero potuto, nel tempo, consacrare una “grandezza” assimilabile ai grandi autori coevi (lo stesso Ravel, ma anche Schönberg, Stravinskij, Bartók e Prokof’ev), ciò nondimeno s’imporrebbe una riflessione più accurata sulla sua opera, al fine di valutarne o rivalutarne contenuti e valori.
L’ascolto di un possente lavoro orchestrale, come la “Sinfonia n. 2”, pone (e ha posto) interrogativi di vario genere, ma induce (e ha indotto) anche ad altre riflessioni. Si tratta certamente di una partitura di estrema complessità, riepilogativa in certo qual senso del filone franco-tedesco-russo del tardoromanticismo: si avvertono echi d’ogni possibile riferimento ad altri autori (ma era inevitabile che così fosse in un’opera giovanile), l’assimilazione di altrui esperienze ma anche i tratti frequenti di una originalità inventiva di grande impatto drammatico ed espressivo in tutti e quattro i suoi movimenti (“Lento, grave, solenne”; “Allegro molto vivace”; “Adagio quasi andante” “Finale Tempo di marcia ben risoluto, con fuoco”) e nell’imprevedibile “E-pilogo” (“Adagio mistico. Con tutta l’intensità di espressione possibile”). Un’analisi dettagliata ne rivelerebbe pregi e tare, ne evidenzierebbe i criteri architettonici e la magniloquenza strumentale, ne mostrerebbe le diversificate componenti armoniche e l’eclettismo motivico e ne svelerebbe, infine, le finalità programmatiche: quel che, di contro, è emerso, dopo la sua magistrale esecuzione da parte dell’orchestra ceciliana e in grazia della incomparabile interpretazione da parte di Gianandrea Noseda, è ben altro e va doverosamente rimarcato ed evidenziato. Il pubblico ha tributato trionfali e prolungate ovazioni certamente agli interpreti tutti, ma soprattutto a Casella e al suo “italianissimo” sinfonismo: ciò indurrebbe ad altre riflessioni e considerazioni, ma, di là da relativi e possibili commenti, s’è chiaramente (e finalmente!) palesato e manifestato un inappagato amore per la nostra tradizione musicale.
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