Al Parco della Musica un grande e acclamato Honeck dirige Mozart e Mahler
Di Sergio Prodigo.
Per degnamente e opportunamente commentare il concerto dell’Accademia di Santa Cecilia, tenutosi eccezionalmente la scorsa domenica 3 maggio (con repliche il 4 e il 5) all’Auditorium del Parco della Musica, occorre principiare dalla terminale ovazione e dalla straripante messe di applausi che il pubblico ceciliano ha tributato all’Orchestra e a Manfred Honeck, dopo una eccezionale esecuzione della “Sinfonia n. 1” di Gustav Mahler. Non mancherebbero aggettivazioni per definirla e compiutamente rappresentarla, ma, di là dal doveroso encomio che accomunerebbe gli interpreti tutti, andrebbe individuato – ancora una volta – nella stessa ricezione (e reazione) degli astanti l’elemento fondamentale che determinerebbe nel tempo corrente l’affezione e la predilezione verso i capolavori del
sinfonismo del Novecento storico, quasi (come accaduto nel concerto dello scorso 18 aprile con la seconda “Sinfonia” di Casella) si avvertisse tangibilmente l’esigenza o il desiderio (da parte delle platee) di bearsi (e cibarsi fino a sazietà) di quella magniloquenza espressiva, della potenza degli ottoni, della ridondanza di armonie certe e sovrabbondanti, delle rassicuranti compiutezze tematiche e della confortante organicità delle strutture formali.
Doverosa (forse) tale considerazione digressiva o, meglio, tale elucubrazione retrospettiva, anche al fine di comprendere, se non chiosare, la finalità di mirate e oculate programmazioni, che tendono (oggi) al recupero di una tradizione (e di un patrimonio) musicale sovente negletto per passate (e sciagurate) scelte ideologizzate. Nello specifico, già la proposizione (nella prima parte del concerto) della “Sinfonia n. 41” in do maggiore K. 551 di Mozart (la celeberrima “Jupiter”), rientra in tale ottica o prospettiva, specie se abbinata (nella seconda parte, come già anticipato) alla “prima” di Mahler in un suggestivo contesto “viennese” (città d’adozione musicale per il genio salisburghese, per il compositore boemo e per lo stesso Honeck, anche in virtù della sua pregressa militanza nei Wiener Philharmoniker). Il capolavoro mozartiano, del resto, composto nel 1788, raffigura e illustra il vertice assoluto – a livello formale-strutturale e, più tecnicamente, contrappuntistico – di un genere classico in costante evoluzione (dalle “sinfonie” giovanili al grandioso trittico finale, costituito dalle “sinfonie” K. 543, K. 550 e K. 551), ma la dovizia tematica dispensata nei suoi quattro movimenti costitutivi (“Allegro vivace”, “Andante cantabile”, “Minuetto: Allegro” e “Molto allegro) si coniuga e si associa prodigiosamente all’intensità espressiva e alla mirabile fusione delle stesse grandi forme (la “forma-sonata” e la “fuga”), che si verifica e si attua per consapevole e profetica intuizione pre-beethoveniana. In effetti, se si considera proprio il primo movimento, l’inserimento nella coda dell’esposizione di un tematismo accessorio (oggetto, poi, di consequenziali sviluppi nella fase elaborativa) sembra preannunciare quelle stesse innovazioni strutturali che proprio Beethoven acquisirà (dopo un lungo percorso “sonatistico”) nelle grandi architetture pianistiche, artettistiche e sinfoniche del suo ultimo periodo compositivo. Curiosamente va annotato come tale frammento motivico sia, in pratica, una sorta di autocitazione: si tratta dell’“Arietta” “Un bacio di mano” per basso e orchestra K. 541, che Mozart scrisse nel maggio del 1788 (su testo di Lorenzo da Ponte) e che inserì (secondo una prassi abituale) nell’opera “Le gelosie fortunate” di Anfossi (tra i maggiori esponenti della scuola napoletana), rappresentata in quello stesso anno a Vienna. La palese “traslazione” tematica non si presterebbe a particolari commenti, in quanto l’esame approfondito dei due temi enunciati nell’esposizione non ne spiegherebbe un inserimento in certo qual senso avulso dal loro contesto, eppure tende a condizionare proprio la parte iniziale di uno sviluppo che, successivamente, si avvale dei più proficui elementi incidentali del primo tema. Una parallela chiave epesegetica potrebbe forse individuarsi nella necessità di stemperare, dopo il fulgore e la solarità delle due enunciazioni fondamentali, quella susseguente, brusca, inattesa e drammatica virata “in minore” (a guisa di evocazione “pre-romantica” dell’intima angoscia esistenziale), che si pone in contrasto dialettico nella stessa logica di una sottesa dicotomia formale.
Occorrerebbe discettare in egual misura sui due movimenti intermedi, non alieni da stravolgimenti edificatori e da inquietudini motiviche, ma l’incombenza di un “finale” irripetibile sembra quasi mutarli o isolarli in una sorta di limbo, pur carico di attese e aspettative: quel tema di solo quattro suoni inizialmente enunciato, forse mutuato da usi pregressi e da antiche pratiche polifoniche, innesta un complesso processo elaborativo che s’avvale, già nell’amplissima esposizione, d’ogni possibile artificio del contrappuntismo multiplo, pur concretando e realizzando l’apparente paradigma del bitematismo. Le molteplici frammentazioni incidentali si combinano e si amalgamano in una mirabile apoteosi della struttura medesima, fino a sfociare in quella possibile deificazione della forma che valse alla “sinfonia” quell’irripetibile appellativo tramandatoci (“Jupiter”).
È sempre ardua l’interpretazione di tale capolavoro, di là dalla perfezione esecutiva della compagine orchestrale ceciliana: Honeck ne ha forse colto e palesato un particolare aspetto, intimamente connesso alla sua stessa genesi e che potrebbe riconnettersi ad una fugace ed effimera affermazione del senso della vita, non disgiunto da quell’“humus” viennese, a tratti rilevabile nella levità eterea delle figurazioni melodiche, specie nell’“Andante” e nel “Minuetto”.
Dal divino al terreno la distanza sembra annullarsi se, nell’esordio enunciativo della “Sinfonia” mahleriana susseguente, un semplice e prolungato pedale di dominante assurge quasi a simbolo del suono vivificante della natura: eppure, di là dalle variegate esegesi critiche su tale “inventio”, la prima compiuta architettura sinfonica del compositore boemo, nella generale complessità dei suoi quattro rituali movimenti (“Langsam. Schleppend. Wie ein Naturlaut. Im Anfang sehr gemächlich – Lento. Trascinato. Come un suono della natura. All’inizio molto tranquillo”; “Kräftig bewegt, doch nicht zu schnell. Recht gemächlich – Vigorosamente mosso, ma non troppo veloce. Tranquillo”; “Feierlich und gemessen, ohne zu schleppen – Solenne e misurato, senza trascinare”; “Stürmisch bewegt – Tempestosamente mosso”), «non rappresenta» – come commentava Bruno Walter – «il vissuto attraverso le note…ma è uno stato d’animo suscitato dal ricordo e dal sentimento presente che crea i temi, influisce sulla tendenza generale del loro sviluppo musicale, senza inserirsi mai violentemente nel flusso musicale, dando vita a una composizione organica, che è allo stesso tempo una confessione dell’anima». Null’altra chiosa renderebbe meglio il senso e il significato del “Titano” (sottotitolo della “Sinfonia”, tratto da un romanzo di Jean Paul e ispirato alla figura di Rocquairol), né gioverebbe alla sua comprensione evidenziare nel primo tema del movimento iniziale l’autocitazione del lied “Ging heut’ morgen übers Feld” (“Me ne andavo stamane per i campi”, tratto dal ciclo “Lieder eines fahrenden Gesellen”) e, soprattutto, rimarcare nel terzo movimento (una “Trauermarsch in Callots Manier”) la citazione “canonica” e “in minore” di “Bruder Martin” (il popolare – in ogni dove – “Fra Martino campanaro”). L’opera, nel suo complesso, specie nel travolgente (e “chiassoso”) “Finale” può identificarsi – sempre secondo Bruno Walter – «nella espressione artistica di un’esperienza dilacerante». Certamente la sua proposizione ha suscitato il già citato plauso incondizionato del pubblico dell’Auditorium, ma ciò deve essere ascritto fondamentalmente ad una maiuscola performance della “grande” Orchestra dell’Accademia, nobilmente rinforzata in tutte le sezioni (in virtù del gigantismo sinfonico mahleriano), e alla straordinaria e trascinante direzione di Manfred Honeck.
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