Auditorium, emozionante direzione di Eschenbach su musiche di Mozart e Sostakovic. Applaudita performance dei solisti Roberto Gonzales-Monjas e Simone Briatore
(di Sergio Prodigo) Del trittico sinfonico dell’Accademia di Santa Cecilia (svoltosi, secondo la consueta prassi, il 16, 18 e 19 maggio all’Auditorium del Parco della Musica), si commenta il concerto del lunedì, ma nel contesto programmatico due elementi si evidenziano per difforme campo d’indagine e contenuto: da una parte una particolare comunanza di reminiscenze tematiche ravvisabili nella (iniziale) “Ouverture” “Die Zauberflöte” K. 620 di Wolfgang Amadeus Mozart e nella (conclusiva) “Sinfonia n. 5” in re minore op. 47 di Dmitrij Šostakovič e, dall’altra, la magnifica performance di due prestigiose “spalle” dell’orchestra ceciliana, il violinista Roberto Gonzáles-Monjas e il violista Simone Briatore, eccellenti interpreti della (intermedia) “Sinfonia concertante” in mi bemolle maggiore per volino, viola e orchestra K. 364 di Mozart.
Le fattispecie evidenziate saranno oggetto (naturalmente) di specifiche e attinenti chiose, al pari della relativa lettura esegetica dei tre brani a livello direttoriale (da parte del grande Christoph Eschenbach) ed esecutivo, principiando proprio dalla celeberrima “Ouverture” mozartiana. È noto come l’inciso iniziale di tale capolavoro risulti, in certo qual senso, mutuato (o, con più cruda aggettivazione, plagiato) dalle prime due battute del primo movimento della “Sonata” in si bemolle maggiore op. 47 n. 2 di Clementi: nel rammentare che tale “Sonata” venne eseguita da Clementi a Vienna nel 1781 alla “regale” presenza dell’imperatore Giuseppe II, che Mozart poté ascoltarla in tale occasione e che la stesura del Flauto magico risale al 1791, va certamente evidenziata l’inconfutabile identità motivica, dovuta anche alla forte caratterizzazione del citato inciso, particolarmente espressivo e immediato sia nella componente ritmica sia nella sua reiterazione alla quinta giusta superiore. Tuttavia, il prosieguo (con il mirabile svolgimento contrappuntistico) e il trattamento del materiale distinguono e separano il genio creativo dal probo e limitato “mestiere” compositivo: tutto ciò tende ad “assolvere” un’affinità, probabilmente percepita e recepita da Mozart inconsciamente, ma maturata negli anni e reinventata come intuizione originale anche per processi mnemonici latenti.
Del resto, senza reiterare le tradizionali implicazioni esoteriche, apertamente espresse nella partitura (specie per le attribuzioni simbologiche dei “tre” bemolle in chiave e dei “tre” accordi ribattuti dei “tre” tromboni), ampiamente si palesano e si manifestano l’originalità architettonica e la sublime valenza estetica sia nell’“Ouverture” sia nell’intero Singspiel, ugualmente intriso di rimandi a ritualità massoniche ma straordinariamente impreziosito da una musicalità espressiva costante e inestinguibile.
Tale musicalità e simile concezione strutturale si intendono e si mostrano anche nella “Sinfonia concertante”, eseguita sempre nella prima parte del concerto: composta nel 1779, sembra conglobare o, meglio riunificare proprio nella titolazione le peculiarità dei due generi – il “concerto” solistico e la “sinfonia” –, poiché il rapporto dialettico fra i due archi solisti e l’orchestra si pone e si sviluppa su livelli e ruoli paritari. In effetti, nel suo complesso la partitura rivela una scrittura conforme ai princìpi del sinfonismo nello stesso trattamento tematico, alieno dalle consuete prevaricazioni virtuosistiche che (nel rammentato genere specifico) tendono sovente a relegare la massa strumentale alla marginale funzione di mero accompagnamento.
Nei tre movimenti della “concertante” (“Allegro maestoso”, “Andante” e “Presto”), invece, si rivela e si rileva un sostanziale equilibrio motivico, nobilitato da una incomparabile alternanza di tematismi austeri e di intense fraseologie cantabili (non prive di un certo patetismo preromantico, presente soprattutto nel mirabile movimento centrale) e da processi elaborativi intrisi di geniali contrappuntismi.
Dopo la buona e spigliata esecuzione dell’“Ouverture” da parte dell’orchestra dell’Accademia, la pagina mozartiana è stata superbamente e accuratamente interpretata dai due solisti, Roberto Gonzáles-Monjas e Simone Briatore, sempre in perfetta sintonia e comunanza di profonde intuizioni espositive, di là dalla raffinata padronanza tecnica e dalla coesione dialogica. L’entusiasmo e la messe di applausi, che il pubblico ceciliano ha riservato loro, testimoniano dell’alta valenza esecutiva dispensata ed esternata, peculiarmente impreziosita e vieppiù corroborata dal delizioso bis (sempre mozartiano, il “Duo” K. 423), concesso dopo lunghi minuti di acclamazioni e chiamate.
Di contro, la valentia di Eschenbach e dell’orchestra (al gran completo) ha avuto modo di manifestarsi ed esprimersi ai più alti livelli nella seconda parte del concerto, interamente dedicata a Šostakovič e alla sua “Quinta Sinfonia”. Come già si è citato per altri commenti, va rammentato che il Nostro «fu indubbiamente il maggiore compositore che operò in Unione Sovietica: sempre in conflitto con la censura del regime, accusato spesso di formalismo, il suo linguaggio si avvalse sovente di atonalismi e politonalismi ben mascherati e, pur astenendosi da radicalismi strutturali, non fu alieno da alcuni sperimentalismi armonici e ritmici, specie nella produzione cameristica».
Ora, per dar corpo e sostanza a quanto preannunciato su comunanze e reminiscenze tematiche, va rilevato come nelle battute d’esordio della “Quinta”, quell’incisivo tema, pur canonicamente trattato, mostri segni di un possibile apparentamento con il profetico contesto enunciativo della “Grande Fuga” in si bemolle maggiore per quartetto d’archi op. 133 di Beethoven: forse la labile ma innegabile verisimiglianza potrebbe essere solo un ricordo, oppure un mirato omaggio, plausibile per un lavoro sinfonico, finalizzato e concepito – negli intenti del compositore sovietico – allo scopo di tacitare e controbattere le menzionate accuse di formalismo e le feroci critiche che avevano stroncato l’opera “Lady Macbeth del distretto di Mszenk”, rappresentata a San Pietroburgo (all’epoca Leningrado) nel 1934.
Di là da tali considerazioni, i quattro movimenti della “Sinfonia” (“Moderato”, Allegretto”, “Largo” e “Allegro”), scritta nel 1937, apparentemente sembrano reinserire o reiterare gli stilemi di una classicità formale, dilatata o snaturata dai gigantismi tardoromantici: tuttavia, proprio il recupero di una rassicurante struttura organica, esente a priori da possibili censure ideologiche, si coniuga e, soprattutto, si esplica (dopo le drammatiche enunciazioni” beethoveniane” del “Moderato” iniziale) con l’impiego di ritmi di derivazione popolare (la serena giovialità dell’“Allegretto”), con l’adozione di un lirismo espressivo di rara efficacia evocativa (il doloroso afflato motivico degli archi nello struggente “Largo”) e con le reboanti, fragorose e tronfie deflagrazioni timbriche (l’effettismo grandioso dell’“Allegro” finale).
Se semplicemente eccezionale, ma sempre sotto ogni possibile aspetto o commento critico, può essere qualificata o aggettivata la maiuscola prova offerta dall’orchestra (perfetta e inappuntabile in tutte le sue sezioni o famiglie strumentali), coinvolgente e trascinante deve definirsi la direzione di un grande interprete, Christoph Eschenbach, già eccelso protagonista del pianismo internazionale (soprattutto negli anni sessanta e settanta dello scorso secolo) e prestigiosa “bacchetta” della contemporaneità musicale: naturale e conseguente l’entusiasmo degli astanti e le prolungate ovazioni tributate agli interpreti tutti.
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