Parco della Musica, terzo appuntamento con Beethoven e i contemporanei. L’Ouverture di Cherubini nella emozionante lettura del maestro Pappano e dell’orchestra ceciliana
Di SERGIO PRODIGO
Per il terzo appuntamento dello scorso sabato 17 ottobre (con repliche il 19 e il 20) all’Auditorium del Parco della Musica, sempre nell’ambito del ciclo dedicato a “Beethoven e i contemporanei”, il compositore (coevo) affiancato al “titano” era, sotto svariante angolazioni, un “grande” della musica italiana che imperava in Francia, Luigi Cherubini (1760-1842). L’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, diretta da Sir Antonio Pappano, ha proposto in apertura – prima delle programmate e programmatiche “Quarta” e “Settima” beethoveniane, l’eccellente “Ouverture” tratta dall’opera “Médée”, scritta dal compositore fiorentino nel 1797.
Appare, in un certo qual senso, opportuno l’aver indicato la datazione di un brano che, pur se attiene alla fase matura di un classicismo non del tutto “asburgico”, racchiude anche elementi di altra natura o di altra possibile esegesi: in effetti, proprio la sua struttura non tende a identificarsi con la rigidità formale dello schema sonatistico di derivazione haydniana, ma ne offre una sorta di nobile variante, forse asservita agli scopi drammaturgici. Il tema in minore iniziale, vigoroso, drammatico e di perfetta foggia espressiva, condensa nella sua simmetria fraseologica una logica sequenza di due elementi incidentali contrastanti, l’uno accordale e l’altro ritmicamente ben scandito, che concorrono alla conseguente elaborazione della trama compositiva: nulla sembra affidato all’estro del momento e le concatenazioni segmentali si susseguono con ordine nella prima fase espositiva; dipoi, nella più corposa riesposizione s’avverte la labile formulazione di un’altra ideazione motivica, seppur mutuata da quegli elementi citati ed espressa nel tono relativo, ma l’abile gioco contrappuntistico li fonde, li trasmuta e ne vivifica lo spirito, specie nell’espressiva e vieppiù angosciosa caudalità finale.
L’interpretazione di Pappano, non disgiunta dalla perfetta performance esecutiva dell’orchestra ceciliana, ha saputo conferire all’“Ouverture” quella “vis” tragica e quella particolare intensità espressiva che lo stesso Beethoven ravvisava e apprezzava nelle opere di Cherubini (fecondo operista, appunto, nonché eccelso contrappuntista, teorico e per venti anni – dal 1822 al 1842 – direttore del Conservatorio di Parigi: si rammentino, oltre la “Médée”, “Les deux journées” e “Les Abencérages”; inoltre, il “Requiem”, il “Credo” e le “Cours de contrepoint et de la fugue”).
I giudizi di Beethoven, non sempre “teneri” nei confronti dei compositori coevi, ma che collocavano Cherubini «al di sopra di tutti i musicisti del suo tempo» ovvero lo proclamavano come «il maggior compositore drammatico vivente», acquisiscono nello specifico una doppia valenza: da un lato ne testimoniano la lungimiranza e l’acume critico, ma, dall’altro, motivano le stesse scelte programmatiche del citato ciclo.
Così, la successiva proposizione della “Sinfonia n. 4” in si bemolle maggiore op. 60 è sembrata logicamente consequenziale, quasi il sinfonismo espresso dalla “Médée” ne avesse rappresentato il degno prologo. Del resto, la composizione della “Quarta” risale al 1806, ossia ai fasti dell’epopea napoleonica, “subita” e “patita” sia da Beethoven in Austria (anche per la cocente disillusione sul «sovvenire di un grand’uomo», che aveva ispirato l’“Eroica”) sia da Cherubini in Francia (ignorato dalla corte imperiale).
L’accenno alla “Terza” non è, tra l’altro, casuale: la sua “imponenza” sembrava quasi preludere al corposo sinfonismo della “Quinta” e della “Sesta” (già “in fieri” nel 1806, ma terminate nei due anni successivi); di contro, nella “Quarta” si ravvisa una sorta di cosciente resipiscenza o, meglio, reviviscenza settecentesca, non certamente sul piano formale quanto, piuttosto, nel carattere “amabile”, se non “accattivante” delle invenzioni tematiche.
L’assenza del piglio appassionato, dell’energia vitale e, in fondo, anche della magniloquenza è compensata dalla leggiadria, a tratti quasi idilliaca, degli spunti motivici del primo movimento (“Adagio” – “Allegro vivace”), dalla grazia ritmica dello “Scherzo” (“Allegro vivace) e dalla sostanziale atematicità delle umoristiche e incessanti figurazioni di veloci moti che perpetuamente si reiterano. Da tutto ciò, tuttavia, si distacca e, soprattutto, si innalza la poesia che si sprigiona dalla pura cantabilità e dall’ariosa melodicità del secondo movimento, il sublime “Adagio”.
La “poesia”, appunto: compresa e compressa nella lineare struttura, si è disvelata nel “suono” orchestrale, quasi la sensibilità di Pappano ne abbia saputo rappresentare i contenuti e i recessi più intimi e, in perfetta simbiosi, l’intera compagine, dagli archi ai fiati, li abbia contestualmente realizzati ed espressi.
È pur vero che la plaudente esternazione del pubblico si è manifestata dopo il travolgente “Finale”, ma certamente condizionata o, meglio, letteralmente suggestionata dalle sensazioni e dalle emozioni provate per l’irripetibile esecuzione dell’“Adagio”.
Nella seconda parte del concerto la “Sinfonia n. 7” in la maggiore op. 92: composta fra il 1811 e il 1812, venne eseguita nel dicembre del 1813 nella sala grande dell’Università di Vienna congiuntamente all’“Ottava Sinfonia”, alle musiche di scena per “Die Ruinen von Athen” op. 113 e per “König Stephan” op. 117 e alla “fantasmagorica” Ouverture “Wellingtons Sieg oder die Schlacht bei Vittoria” op. 91.
Nel contesto di una manifestazione decisamente “patriottica” (alla quale parteciparono, anche in veste di esecutori, i più importanti compositori di quel periodo, come Salieri, Hummel, Meyerbeer e Spohr) e di là da essa, la “Settima” s’impose al pubblico viennese per quella straordinaria componente ritmica, insita in ogni cellula tematica del primo, terzo e quarto movimento, che spinse Richard Wagner a racchiuderne lo spirito e l’essenza nella felice espressione di “apoteosi della danza”. Eppure, fu l’incomparabile “Allegretto”, ossia quel secondo movimento di rara e perfetta fattura formale tripartita, a suscitare entusiasmi e decretarne, allora e nel prosieguo inestinguibile del tempo, il successo e il novero perenne nella sfera del sublime.
Quel subitaneo accordo introduttivo dei fiati, sospeso dalla sua natura armonica di secondo rivolto triadico, quella lenta fusione di due temi ricchi di pathos e interconnessi in un virtuale fugato, dipoi quell’andamento echeggiante il monometro dattilico, che pervade perfino la levità dell’intermezzo in maggiore: il tutto concorre alla definizione di “musica assoluta” e di pura e divina creazione, ossia l’impronta del genio nell’ambito di un organico capolavoro sinfonico.
Si dovrebbe definire semplicemente esaltante e inebriante l’interpretazione offerta da Pappano, per la profonda compenetrazione critica e per la trascinante vigoria dell’atto direttoriale, e dall’Orchestra dell’Accademia, per la precisione esecutiva e per la compartecipazione emotiva.
Se le ovazioni e le acclamazioni del pubblico ceciliano si sono entusiasticamente manifestate e protratte a lungo, va doverosamente rilevato come proprio una similare esecuzione della “Settima” abbia mandato letteralmente in delirio il pubblico parmense al termine del concerto che l’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, diretta da Sir Pappano, ha tenuto domenica 18 al Teatro Regio nell’ambito del prestigioso “Festival Verdi 2015” (eseguendo, tra l’altro, nella prima parte “Sin-fonie” e “Preludi” verdiani dalla “Luisa Miller”, da “La forza del destino”, da “I ma-snadieri”, e dall’“Aida”).
Social