Parco della Musica, omaggio a Beethoven quarto appuntamento: la magica musica di Giovanni Sollima per la direzione di Sir Pappano
Di SERGIO PRODIGO
Per il quarto appuntamento dello scorso sabato 24 ottobre (con repliche il 26 e il 27) all’Auditorium del Parco della Musica, sempre nell’ambito del ciclo dedicato a “Beethoven e i contemporanei”, il compositore (contemporaneo) che affiancava il Nostro era Giovanni Sollima, internazionalmente riconosciuto anche come uno dei maggiori violoncellisti dell’agone concertistico. L’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, diretta da Sir Antonio Pappano, ha proposto in apertura, prima dell’“Ottava” e della “Sesta”, un suo recente lavoro, “Ludwig Frames”, commissionato per l’occasione ciclica dalla stessa Accademia ceciliana.
Per comprendere a pieno la fascinosa composizione per coro e orchestra, appare utile soffermarsi sulla medesima titolazione: l’omaggio a Beethoven è certamente implicito, ma per “frames” (“intelaiature”, “strutture” o “cornici”) dovrebbe intendersi la sua accezione “linguistica”, se non la rappresentazione di un “significato” (di ascendenza saussuriana) secondo determinati valori di “default”. Nello specifico, se si esula dal primo dei quattro brani (assemblati nel lavoro apparentemente senza soluzione di continuità), un “Moderato” introduttivo assai espressivo e quasi modalmente dolente nella soffusa timbricità degli archi, gli altri tre agiscono nel contesto “significante” delle valenze beethoveniane ma senza apparentamenti o netti riferimenti stilistici.
Il secondo, al riguardo, “1810, George Thompson (“Allegro”)”, “visita” o, meglio, “rivisita” in certo qual senso l’interesse che Beethoven nutriva e coltivava per la musica popolare europea: quel citato musicista dilettante (ma grande esperto del folklore britannico) gli fornì ampi materiali, sovente utilizzati per variazioni o per peculiari citazioni; ed ecco, allora, il “default” nella trasposizione di Sollima, ossia una concezione operativa che gli consente di “inventare” un’originale se-quenza “irish”, di estrema compattezza ritmica, arricchita da un’abile e ben distribuita strumentazione. Dipoi, nel terzo brano, “Biamonti 738 (“Moderato assai”)”, la necessaria citazione beethoveniana si rivela quasi evanescente, forse perché mutuata dal citato catalogo di Giovanni Biamonti (l’illustre musicologo che nel 1968 pubblicò il più importante “inventario” dei temi beethoveniani, comprendente tutti i frammenti, gli abbozzi e gli spunti annotati anche nei quaderni di conversazione), tuttavia è proprio l’abile gioco strumentale che tende a dissolvere le labili derivazioni motiviche.
Più articolato, di contro, l’ultimo brano, “Konversationshefte n. 1”, ossia un frammento testuale, tratto dai celebri “Quaderni di conversazione”: al coro viene affidata l’emblematica frase, “Liebe will mehr Liebe” (“L’amore vuole più amore”), annotata da Beethoven, ma la struttura realizzata da Sollima si rivela di estrema originalità e non aliena da estrosi cedimenti ai correnti linguaggi extracolti. Certamente il contesto tonale (e modale) e la stessa naturalezza tematica dei quattro brani ne agevola la comprensione, di là dai riferimenti ai princìpi ispirativi o programmatici: il plauso del pubblico non è stato – come, a volte, accade per le opere in prima esecuzione – né tepido né di circostanza ma intenso e spontaneo, seppur vincolato e connesso all’eccellente performance dell’Orchestra, del Coro (sempre all’altezza della sua fama, in virtù della maestria di Ciro Visco) e, soprattutto, di Antonio Pappano, costantemente in piena sintonia anche con le più diversificate espressioni della contemporaneità musicale.
A seguire, la “Sinfonia n. 8” in fa maggiore op. 93, molto amata dal Nostro ma non particolarmente apprezzata dai critici coevi: in effetti, il confronto con le poderose consorelle (dalla “Terza” alla “Quinta”, dalla “Sesta” alla “Settima” e – ovviamente – alla “Nona”) potrebbe rivelarsi ingeneroso se non penalizzante, poiché non vi si ravvisano “grandi” tematismi o innovativi stravolgimenti formali. I quattro movimenti (“Allegro vivace con brio” – “Allegretto scherzando” – “Tempo di minuetto” – “Allegro vivace”) mostrano una grazia settecentesca, specie nella logica strutturale, ma si avvalgono a livello puramente motivico di una sorta di raffinato umorismo, la cui finalità non facilmente si coglie, se non in grazia di ascolto critico che possa prescindere dalla piacevolezza e gradevolezza puramente percepibili. Si pensi solo, in tale contesto, a quel tema iniziale del secondo movimento, che sembra quasi imitare il ticchettio di un virtuale metronomo (un’ulteriore omaggio all’amico Mälzel, inventore dell’“infernale” aggeggio), ma anche alla vena parodistica che anima le stesse invenzioni tematiche del “Finale” (forse un ipotetico riferimento alla coeva bonomia rossiniana).
L’“Ottava” ha certamente dato agio all’orchestra di esprimersi ai consueti alti livelli, mantenendo intatta, costante e uniforme nell’esegesi critica di Pappano quella correttezza stilistica che la stessa partitura esige e contempla, ancor più evidenziabile nella susseguente esecuzione della “Sesta”, proposta nella seconda parte del concerto.
Di là dai noti contenuti programmatici, sovente resi con le più diversificate intenzionalità espressive, insite anche in altri capolavori sinfonici beethoveniani, la “Sinfonia n. 6” in fa maggiore op. 68 è certamente e fondamentalmente atipica: pur prescindendo dalle fantasiose note di Czerny o dalle confusioni lessicali di Schindler sulle supposte derivazioni tematiche ornitologiche, la “Pastorale” pone essenzialmente in evidenza il rapporto dicotomico fra musica d’arte e musica di natura, volendo intendere con quest’ultima una sorta di principio descrittivo, ma non pittorico, che muta o volge nell’espressione di sentimenti (musicali) l’“Erinnerung” dell’idillio arcadico.
Purtuttavia, i suoi primi due movimenti, l’“Allegro ma non troppo” (“Risveglio di sentimenti lieti all’arrivo in campagna”) e l’“Andante molto mosso” (“Scena presso il ruscello”), appaiono solidamente connessi agli impianti formali sonatistici, anche se la frequente reiterazione di microformule motiviche mostra, specie nel tempo iniziale, una tendenza evocativa, a stento non percettibile come possibile rappresentazione scenica: meno avvertita, invece, tale sensazione nel susseguente, ove s’avverte mag-giormente, in virtù di una staticità tematica iniziale di tipo formulaico, la sintesi mu-sicale dell’astrazione contemplativa, in virtù sia della ricorsività e reiterazione incidentale sia delle conclusive e non strutturali citazioni di garrule onomatopee (così care al citato Schindler).
Di contro, nei tre movimenti, che costituiscono la parte “narrativa” della “Pastora-le”, l’“Allegro” (“Allegro convegno di contadini”), l’“Allegro” (“Temporale. Tempe-sta”) e l’“Allegretto” (“Sentimenti di allegria e riconoscenza dopo la tempesta”), i nessi formali soggiacciono a degli specifici intenti evocativi, improntati ad un realismo di natura, che si esplicano in una lunga sequenza di eventi illustrati o affrescati senza le rituali cesure. Alla maggiore compattezza strutturale di un terzo tempo, configurato ma non forzato nei gioiosi archetipi dello “Scherzo”, consegue la cupa drammaticità (in minore) di una “letteraria” tempesta o bufera, musicalmente avulsa da schemi, che forse stravolge l’idillio, ma solo al fine di ricomporlo nella meditata teofania del “Finale”.
L’esecuzione di questo capolavoro richiede quella compattezza stilistica, già menzionata ma in grado di coglierne la naturale essenza e la stessa suggestione evocativa, senza indulgere in artifici, giochi ed effetti ridondanti: Pappano ha operato in tal senso con estrema logica e linearità espressiva, sempre coadiuvato dai preziosismi tecnici delle sezioni orchestrali. Le entusiastiche e prolungate ovazioni del pubblico sono state semplicemente consequenziali.
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