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Auditorium, sul podio il direttore russo Petrenko. Debutto del giovane talento cinese: il violinista Ray Chen

Auditorium, sul podio il direttore russo Petrenko. Debutto del giovane talento cinese: il violinista Ray Chen

Di SERGIO PRODIGO
All’Auditorium del Parco della Musica un prestigioso direttore russo, Vasily Petrenko, sul podio dell’Orchestra dell’Accademia Nazionale di Santa Cecilia, il debutto nel contesto ceciliano di un giovane talento, il violinista cinese Ray Chen, e la proposizione di due difformi espressioni del sinfonismo del tardo Ottocento, la “Symphonie espagnole” di Édouard Lalo e la “Sinfonia Manfred” di Pëtr Il’ič Čajkovskij, hanno certamente conferito al concerto di sabato 21 novembre (con repliche il 23 e il 24) un marcato interesse musicale ma, forsanche, una correlata significazione extramusicale: proprio nel corso e nel vissuto di particolari contingenze e di eclatanti accadimenti (purtroppo le espressioni eufemistiche non dissimulano ma rammentano i correnti, ricorrenti, cruenti e nefasti “tempora belli”) la Musica può sovente lenire e mitigare, seppure in parte, angosce e inquietudini o, per indefiniti istanti, distogliere la mente da crude e inaccettabili realtà, surrogandole con altre visioni o altri ideali.

Di là da tale merito o riflessione, la menzionata difformità delle due proposizioni sinfoniche può rilevarsi ed esplicitarsi in una sorta di dicotomia di genere: da una parte (Lalo) l’amabilità, la piacevolezza e la levità di un “minore”, dall’altra (Čajkovskij) l’enfasi, la ridondanza e la gravosità di un “grande”. Ugualmente, la distinzione fra la valenza artistica e il ruolo assegnato ai compositori dalla storia musicale incide e si riflette sul giudizio estetico, pur se è innegabile che talune espressioni del linguaggio “minore” ritengono e conservano una costante attrattiva e un oggettivo fascino; di contro, altri contesti, a volte imperscrutabili, risultano di più complessa e laboriosa assimilazione.

Nello specifico, la “Symphonie espagnole” per violino e orchestra op. 21, composta nel 1873 da Édouard Lalo (un compositore al quale la stessa storia, purtuttavia, assegna un ruolo non comprimario nell’ambito della rinascita della musica strumentale francese della seconda metà del XIX secolo), fonde mirabilmente le forme del “concerto” e della “sinfonia” in virtù di una inusuale sequenza di cinque agili movimenti (“Allegro con fuoco” – “Scherzando: Allegro molto” – “Intermezzo: Allegretto non troppo” – “Andante” – “Rondò: Allegro”) che evocano, sostanzialmente, il folklore iberico. Non si ravvisano, tuttavia, possibili citazioni estrapolate da tematismi popolari, anzi traspare una certa genuinità dell’invenzione melodica, certamente non di alta levatura ma del tutto idonea alla rappresentazione di un ricercato esotismo d’oltralpe, corroborato dal legittimo uso di ritmi e andamenti mutuati dalla citata componente folklorica (“Habanera”, “Seguidilla” e altro). In tale contestualità va rilevato, del resto, come le più importanti composizioni pianistiche e sinfoniche, dedicate alla Spagna, siano state realizzate principalmente da autori francesi (da Bizet a Chausson, da Debussy a Ravel).

Non sempre risulta agevole interpretare un’opera, come la “Symphonie espagnole”, essenzialmente basata sulla gradevole attrattiva di tematismi non eccelsi, sovente infarciti di reiterati orpelli virtuosistici, e priva di qualificanti vette espressive, pur se sapientemente strumentata e ben congeniata nel connettivo rapporto dialogico fra il violino solista e la massa orchestrale: la magistrale performance di Ray Chen ha saputo gratificarla di logica enunciativa e di coerenza stilistica, andando ben oltre la naturale esibizione di una incommensurabile bravura tecnica, anche in grazia di una perfetta intesa con l’ineguagliabile compagine ceciliana, ineccepibilmente diretta da Vasily Petrenko.

Il pubblico ha lungamente applaudito e osannato il violinista cinese, quasi “costretto” dall’intensità delle ovazioni a concedere due “bis”, il “Capriccio” n. 21 in la maggiore di Paganini e la “Gavotte en Rondeaux” (dalla terza “Partita” in mi maggiore) di Bach: la sua valentia e il suo talento hanno potuto così esprimersi con maggiore compiutezza, poiché s’è pienamente palesata una perfetta simbiosi fra tecnica e musicalità.
Nella seconda parte del concerto la “Sinfonia” in quattro quadri op. 58 “Manfred” di Čajkovskij: tale imponente affresco sinfonico si posizionerebbe fra la “Quarta” e la “Quinta”, accrescendo a sette il novero delle sue sinfonie numerate, ma il compositore russo volle mantenersi fedele o coerente alla specifica concezione strutturale della musica a programma, estrapolandolo dal dominio del genere (così come avevano operato per similari lavori programmatici Berlioz e Liszt). In effetti, pur se il significato formale del “Manfred” si assimila e si uniforma a quei canoni, il significante estetico si modula negli stilemi del “poema sinfonico”, ossia nella narrazione o trasposizione musicale di un testo letterario, l’omonimo dramma metafisico di Byron (che già aveva ispirato Schumann).

In Čajkovskij l’eroe byroniano si muta nell’ulisside che intraprende una sorta di ascetica anabasi, per emendare un profondo senso di colpa (la morte dell’amata sorelVasily la Astarte) e trovare una redenta pace nell’eterno oblio. Nella “Sinfonia” convergono e si assommano, pertanto, gli elementi tipicizzanti di un retro-romanticismo di maniera: una timbrica poiesi di un possibile leitmotiv ciclico, una strumentazione espressiva e coloristica, una pluralità di tematismi incisivi ed evocativi, gli scenari alpestri, le angosce esistenziali, la rievocazione del passato, gli incantesimi e le magie di realtà immaginifiche, gli immancabili idilli pastorali, le orge demoniache e la finale redenzione dai presunti peccati.

In tali scenari e accorgimenti tecnicomusicali si compongono e si succedono i quattro quadri (o movimenti) dell’opera, non disgiunti dalle necessarie didascalie: I: “Lento lugubre. Moderato con moto. Andante con duolo” (Manfred vaga per le Alpi tormentato dal dubbio e dal rimorso. La sua anima è preda di una sofferenza senza nome); II: “Vivace con spirito” (La fata delle Alpi appare a Manfred sotto l’arcobaleno); III: “Andante con moto” (Scena pastorale. Semplice vita dei montanari); IV: “Allegro con fuoco. Andante con duolo. Largo” (Palazzo sotterraneo di Arimane. Manfred appare nel mezzo del baccanale. Evocazione dell’ombra di Astarte che gli predice la morte imminente. Morte di Manfred). Il tutto si esplica e si concreta in quasi un’ora di doviziose raffigurazioni musicali e la narrazione medesima o, meglio, la descrizione degli accadimenti didascalici raramente cede, condizionandola, alla pura “inventio”, sempre in linea con l’ampio dispiegarsi, tipicamente čajkovskijano, del flusso melodico quasi ininterrotto o di specifici “accorgimenti” tecnici e timbrici (dal canto del violino solista, sostenuto dagli accordi delle arpe, nel secondo quadro, all’impetuoso fugato della seconda parte del “finale”, fino all’ultima sortita mistica dell’inoperoso organo).

Una partitura così composita come il “Manfred” e, soprattutto, di complessa esecuzione abbisogna di una grande orchestra e di un direttore che sappia operarne una profonda lettura, una conseguente assimilazione e una relativa condivisione: così è stato, poiché l’Orchestra dell’Accademia, perfetta in ogni sezione e nell’amalgama strumentale, si manifesta e si rivela sempre all’altezza dei compiti più ardui e astrusi, specie se guidata da un ancor giovane, valoroso e vigoroso interprete come Vasily Petrenko. La finale messe di applausi dell’attento e competente pubblico ceciliano ne ha costituito la logica riprova e la reiterata conferma.